Sui resti murari fatti per lo più di pietrame cominciarono
a sorgere le nuove case. La tecnica costruttiva era "a sacco".
Il materiale più comunemente usato era il mattone misto al pietrame
nelle costruzioni più antiche e la malta fatta con impasto di terriccio,
paglia e calce. I muri erano costruiti a casse-forme sovrapposte. Ogni struttura
composta da pietre e malta era delimitata da mattoni. Soltanto quando "il
sacco" era ben asciutto "u frèbbechètore"
poteva proseguire il lavoro. Erano tempi senza problemi di tempo. I muri
perimetrali delle abitazioni, di oltre un metro di spessore ottenuti con
la stessa tecnica del muro a secco con l'aggiunta di malta, erano, nelle
case più antiche, muri di sostegno per le volte a botte che iniziavano
l'arco a 150 centimetri dal suolo. In alcuni casi la volta poggiava su due
o quattro archi che si sviluppavano lungo le pareti valorizzati in altezza.
Con la diffusione delle fornaci ci fu il trionfo del mattone nel nostro
tessuto urbano. Per farsi la casa i contadini andavano dai mattonai a barattare
la paglia con i mattoni. La bravura del muratore era determinante non solo
per la stabilità della costruzione, ma anche per l'eleganza delle
forme, specie delle volte e degli archi ottenuti con una tecnica originale,
tramandata di generazione in generazione. Dopo aver costruito i muri perimetrali
ed aver innalzato, su quelli frontali, due semiarchi, il Capomastro centinava
la volta, che era quasi sempre a botte. I "sbregliòzze"
legati a gesso formavano volte a crociera. Il tetto (a cupertine)
era costituito da travature in legno poste parallele fra loro e alla distanza
di un metro. Tra una trave e l'altra si allineavano ogni venti centimetri
in senso trasversale delle traversine di cerro, su cui si poggiavano i mattoni
Santa Croce (pienèlle). Infine il tetto, ormai chiuso,
veniva definitivamente coperto di coppi (pince).
Per utilizzare al massimo lo spazio, nelle pareti venivano ricavate delle
nicchie. Fra queste non doveva mancare "a vutèrelle",
che costituiva l'altarino di famiglia, ricco di statuine e immagini sacre.
Il camino (chèntone), simbolo del focolare domestico,
era l'indispensabile mezzo di riscaldamento della casa. Poteva impegnare
un'intera stanza di circa nove metri quadrati, la cui volta era costituita
dalla ciminiera (ciummenére) che man mano si restringeva
verso l'alto fino all'apertura del comignolo (casa di Giorgio Castriota,
1876). In genere i camini erano di due tipi: alla monacale e alla campagnola.
L'intonaco interno ed esterno della casa era ottenuto con un impasto di
terra e calce su cui si passavano infine più mani di calce. Nei bassi,
stalle e case povere, specie le volte non venivano intonacate ma soltanto
imbiancate a calce; per cui col tempo gli strati sovrapposti di calce lasciavano
intravedere le forme dei mattoni, protetti da questo candore ovattato di
semplicità verginale. Per fare i cornicioni o le chiavi degli archi
centinati sui piedritti dei portali delle case il muratore sagomava, prima
con la martellina, poi rifiniva con la raspa e la lima mattoni di mezza
cottura inseriti in modanature di legno.
Un lauto banchetto (chèpechènèle),
offerto dal padrone di casa ai muratori, coronava la fine dei lavori.
I capimastri ci lasciarono la loro testimonianza di bravissimi artigiani
nell'antico centro urbano (Dint'à Tèrre) che
si espanse verso est fino al palazzo settecentesco dei Duchi Sanfelice.
Continuano a sfidare i secoli: qualche casa padronale (pèlazze);
poche case di un piano (mmonte), alcune con scale e pianerottoli
esterni (vegnèle); tanti bassi angusti (bàsce)
dove si dormiva in promiscuità e si mangiava in un unico piatto,
mentre dietro al divisorio di legno (tèvelète)
il raglio dell'asinello ricordava al contadino il prossimo duro lavoro.
Case addossate l'una all'altra in un unico abbraccio di solidarietà
con il vicinato. La villa è un'isola autosufficiente.
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