Gli spazi interni delle case del ceto medio-basso erano limitati ad un vano, " u bàsce" a pianterreno o "u mmònte" al primo piano; non di rado anche a due vani, "mmònte e bàsce". In questo caso per accedere al basso si poteva entrare anche da una porticina di servizio "à chètèratt", che di solito si trovava alla fine della scalinata. Lungo le pareti, imbiancate a calce, le nicchie dalle voltine a botte, ricavate direttamente nel muro, avevano una funzione pratica ed estetica, in quanto alleggerivano la struttura architettonica e fungevano da dispensa, da cristalliera, da altarino (vutèrèll). Altre strutture fisse in muratura erano: una fossa "a fussétte", dove si conservava il grano, ricavata nell'intercapedine tra la volta a crociera del piano inferiore e il pavimento di quello superiore della casa; il camino "u chèntone", indispensabile per scaldarsi e per cucinare; la cucina in muratura, antecedente a quella in ferro smaltato, funzionante allo stesso modo a legna. I pavimenti erano di quadroni di terracotta o di piastrelle di cemento decorate in modo da riprodurre nella disposizione a mo' di puzzle i disegni di antichi tappeti.
 Questi i vani che contenevano già una parte degli arredi. Avevano una compostezza e una funzionalità che ben si armonizzavano con un arredamento sobrio che non indulgeva a decori. Al lavoro del muratore e dell'imbianchino seguiva quello del vasaio, del ramaio, del fabbro, ma specialmente quello del falegname che produceva gli essenziali pezzi per completare l'arredamento: mobili e porte che dovevano durare nel tempo.
 
 L'iconografia
 Una varietà di immagini sacre, che rispecchiava un mondo culturale, religioso ed etico, disposte da più parti, caratterizzava l'arredamento: dipinti su vetro, formelle di ceramica, pregevoli statuine in cera custodite sotto campane di vetro, tante litografie di santi (i fegure). Piccole chiese domestiche profumate d'incenso, anche se questo serviva il più delle volte per coprire cattivi odori dovuti alla mancanza di servizi igienici o alla combustionr della carbonella (a chérvunèlle) nel braciere (u vrèscére).
 Un richiamo costante dei cari defunti erano i loro ritratti dipinti ad olio su tela da pittori girovaghi che spesso venivano pagati, per il loro lavoro, in natura. Con la diffusione della fotografia anche i meno abbienti potevano mettere in bella mostra le foto dei familiari.
 
 La mobilia
 Veniva chiamata "mènze" la madia-credenza, assegnata in dote alla sposa nel contratto nuziale. Questo mobile rustico (la facciatora) serviva per setacciare la farina, per fare il pane, e per conservarli con il lievito "u luvéte", "a mesure", "a rèretore", "u marchje". "A mènze" era composta da tre pezzi indipendenti e sovrapposti: "u stipe", credenza per conservare gli alimenti; "a fèzzètore", trogolo rettangolare formato da cinque assicelle, di cui le quattro laterali più o meno inclinate verso il fondo (all'origine la madia era formata soltanto da questo pezzo (facciatora), poggiato su due sedie o cavalletti), serviva per impastare il pane; "u tèvelére" , coperchio ribaltabile su cui si faceva l'appezzatura del pane o la pasta fresca.
 "A buffétt" era il tavolo da cucina. Il modello comune aveva il piano rettangolare con due cassetti e con le gambe a rocchetto. Un altro più raro e antico era in legno di rovere con il piano doppio, apribile a libro, e con un unico cassetto della stessa lunghezza del tavolo.
 
  Dalla forma anatomica comodissima, le sedie impagliate con lo schienaIe a sciabola erano semplici, ampie, casalinghe, confortevoli. Ma nelle case dei contadini più poveri c'erano soltanto gli sgabelli a tre gambe "i prèvele" costruiti da loro stessi e utensili di terracotta.
 Vicino al camino era appeso al muro il porta-sale: una cassetta di legno dove si conservava il sale, per preservarlo dall'umidità.
 Un capace telaio di legno, assicurato alla stessa parte, metteva in mostra una fornita batteria di tegami di rame.
 I comò di noce nostrano, di ciliegio o di rovere, intagliati o sagomati quel tanto che bastava per non turbare l'equilibrio delle linee e dei volumi, erano una sintesi armonica di elementi neoclassici e neobarocchi a cui l'artigiano dava l'impronta e la creatività personale. Spesso nei doppifondi "i contrèfunn" dei comò si mettevano a maturare le mele gaetanelle che impregnavano del loro intenso profumo la biancheria nei cassetti. Il letto dei poveri era formato da due materassi, uno di lana e l'altro di cartocci di granturco (u sèccone di frusce), sovrapposti su un piano di legno, sostenuto da trespoli in ferro (i trispete). Doveva essere alto per camuffare nella parte sottostante la cassa della biancheria e le provviste alimentari. Il letto vero e proprio era in ferro battuto a "metallo vivo", spesso le spalliere presentavano decorazioni traforate con simboli neoclassici o geometrici, caratterizzate da pigne e bocce in ottone ai montanti. La testiera e la pediera, sagomate da bordure ad arco, di un altro stile di letto in ferro, erano di lamiera piena, a volte decorata in policromia.
 La cassa del corredo che si affermò nel Settecento e che arrivò all'inizio del Novecento borchiata, con il coperchio a schiena d'asino, cedette poi lentamente il posto all'armadio. Nelle case dei più abbienti c'era anche la toletta, costruita a mo' di console, aveva il piano in marmo su cui due colonnine portaoggetti sostenevano una specchiera ovale a bilico. Se mancava lo spazio ci si accontentava di un modellino portatile costituito da un cassetto sormontato da due colonnine tornite a rocchetto che sostenevano un piccolo specchio a bilico.
 Nel 1924 l'arrivo dell'elettricità mandò in disuso le lucerne ad olio in terracotta, in ferro, in ottone a due, tre, e anche a quattro becchi con gli stoppini imbevuti nell' olio; i lumi a petrolio di rame o di opaline, quando non era possibile trasformarli in abatjour o in lampadari elettrici. Tra lo stupore di tutti, quando si girava la chiavetta dell'interruttore "a chièvétt da luce" in porcellana, l'energia elettrica, attraverso la trecciolina sostenuta da isolatori di legno o di porcellana fissati ai muri della stanza, accendeva la lampadina tubolare "cu pizz, a incandescenza".
 Nel 1932 l'installaztone della rete fognaria e della rete idrica dell'Acquedotto Pugliese fece accantonare lentamente "a sèrole" con l' apposito secchiello di rame "u secchiétt" ed anche il grosso vaso in terracotta smaltata "u chètill" (nell'800 nome dialettale "u bbèzzèveche"), dove si facevano i bisogni corporali.
 Questo arredamento con il comò, la cassa, il letto, le nicchie, i quadri esaltava lo spazio interno senza turbare l'equilibrio della struttura abitativa. Nella semplicità aveva una sua identità esteticamente valida. Integro e forte, tale "organismo" è stato smembrato da rigattieri e collezionisti che continuano a cercare quei pezzi di uso comune per isolarli nelle case moderne dove da soprammobili stravolgono la loro storia.