Precursori dei fotografi erano i pittori girovaghi che dipingevano su
tele, a richiesta, ritratti spesso barattati dai committenti con olio o
altri generi alimentari. Gli olii, alcuni di pregevole fattura, di solito
non erano firmati e campeggiano tuttora nei salotti di alcune famiglie serrane
documentando la fisiognomica della stirpe.
Intanto nella seconda metà dell'800 quando il fotografo era
un po' pittore, un po' alchimista, ottico e scenografo, cominciavano a diffondersi
i ritratti fotografici, dove predominava il ritocco.
Il lavoro di questo artigiano eclettico richiedeva più competenze
che si acquisivano secondo la logica della nobile bottega artigiana: l'apprendistato.
Il ritratto, cavallo di battaglia degli studi fotografici, veniva
eseguito in studio, con lunghe pose, alla luce naturale davanti a fondali,
dipinti spesso dallo stesso fotografo. Il soggetto o i soggetti venivano
ripresi di solito frontalmente. Lo scopo era quello di catturare l'attenzione
di chi guarda, quasi di farlo dialogare con l'immagine. Per cui specie i
ceti meno abbienti usavano il ritratto, in opposizione alla scrittura, come
mezzo di comunicazione. Un esempio ci viene dato dal ritratto a mezzo busto
di cm 40x50 del serrano Raffaele D'Adamo, eseguito dal fotografo
Nicola Benvenga nel 1928 a San Severo, che sembra seguirti con lo
sguardo da qualsiasi punto di vista tu lo guardi. Quindi al di là
di ogni velleità narcisistica il soggetto attraverso l'immagine cercava
di trasmettere, ricordare, rassicurare ai parenti e alla collettività
il proprio stato fisico e sociale. Così le gerarchie e i ruoli della
famiglia patriarcale si ricostituivano nella staticità della posa
fotografica trasmettendo all'osservatore, in un quadro di sintesi, i diritti
e i doveri dei membri del gruppo.
Dalla fine dell'800 ai primi decenni del'900 l'attività dei
fotografi richiedeva mobilità sul territorio, per cui l'attività
di uno studio estensibile su altre piazze, dava luogo a succursali.
All'epoca i nostri compaesani andavano a San Severo
per farsi ritrarre, dove c'era solo lo studio fotografico
di R. Caruso, che si spostava anche a Foggia, succursali della sua
sede stabile di Trani. Collaboratore di Caruso a San Severo era Nicola Benvenga.
Questi dal 1902 si mise in proprio e aprì lo STUDIO FOTOGRAfICO
BENVENGA, in cui fino al 1951 si succedettero tre generazioni di fotografi,
operanti in seguito anche a Torremaggiore. Tanti ritratti di serrani e tante
foto del nostro paese, come la Portella con il Castello e ilCorso Garibaldi
portano la firma di questo valente fotografo, che all'occorrenza vestiva
anche i panni dell'ambulante. Altri validi professionisti sanseveresi erano
Rocco di Fonzo, Antonio Luigi Venditti e Matteo Mummolo,
mentre a Torremaggiore operavano Ficcoli, Maietta e Zanotti,
a Foggia Longo, a Candela Leone, ad Apricena Pitta,
a Lucera Visciano. La scritta "Fotografia istantanea - PIETRO
DE FELICE - Serracapriola", timbrata dietro la foto di una scolaresca
con il maestro Salciti del 1913 documenta forse la presenza stabile o saltuaria
del suddetto fotografo nel nostro paese. Le altre foto delle varie scolaresche
dell'epoca, quando era d'obbligo farsi fotografare alla fine di ogni anno
scolastico, portano le firme degli operatori con le sedi di origine e le
succursali. Da noi ricorre spesso "Premiata fotografia milanese
- A. Venturini- Bari". Il fotografo veniva chiamato anche per
le foto di morti che dovevano documentare tutti i riti e le usanze che la
tradizione imponeva: il bambino con l'abito bianco, l'anziana donna nubile
con una ghirlanda di fiori bianchi e un velo. A richiesta della famiglia
il fotografo ritraeva anche il funerale: la bara, tèvute,
portata a spalla, le corone, i fratelli della confraternita, ciòcere.
Ma il personaggio che polarizzava l'interesse dei bambini e dei popolani,
che lo aspettavano nei giorni di festa per farsi fotografare, era
il fotografo
ambulante. La sua camera da viaggio, posta sul cavalletto di legno, consisteva
in una cassetta con l'obiettivo e da un foro, praticato su un lato dell'apparecchio,
pendeva una manica di giacca sdrucita, in cui s'infilava la mano per poter
estrarre i negativi dalla camera oscura. Sulla cassetta una ringhierina
proteggeva una spazzola spelacchiata, un pettine sdentato e uno specchietto
con la cornice di celluloide. Il tutto serviva ai clienti per mettersi in
ordine prima della "posa". Ed un campanello per i più piccini
per farli stare fermi nel momento "solenne" dello scatto. In un
barattolo di latta pieno d'acqua, appeso al cavalletto, il fotografo immergeva
i negativi per l'ultima fase di sviluppo. Inoltre per farsi pubblicità
metteva in mostra il campionario delle foto più riuscite.
Intanto si passava dalle lastre a gelatina bromuro d'argento, alle pellicole
piane e alle pellicole a rullo. In paese cominciarono a diffondersi le prime
macchine fotografiche a cassetta e a soffietto che utilizzavano pellicole
a rullo 6x9 e 6x6.(Alcune notizie sono state attinte al testo "Specchio
di donna" pubblicato dalla Regione Puglia Ass P.I.) |