Un tempo in Puglia esistevano molte concerie per la lavorazione di pelli di animali. Della pelle, per lo più bovina, nella lavorazione, l’epidermide viene eliminata mentre il derma viene trasformato in cuoio. Nel secolo scorso per la concia delle pelli si usavano sostanze vegetali, che contengono tannino, tratte dai boschi (cerro, leccio, castagno). Questo modo di conciare era molto lento, perché le pelli venivano messe ad ammollo in vasche per 15 giorni, poi in fosse con sostanze vegetali, dove dovevano rimanere per sei-sette mesi. Verso il 1910 cambiò il ciclo di lavorazione. L’introduzione della calce e del bottale permise di ridurre i costi e i tempi di lavorazione, liberando la pelle dall’epidermide, dal pelo e dal tessuto adiposo sottocutaneo. Dopo il 1915 l’introduzione del solfuro nel calcinaio ridusse ancora di più i tempi di questa fase. Una concia per fissare il pelo o per ottenere pelli bianche e morbide era l’allumatura: allume, farina e rossi d’uovo. Dalla memoria collettiva non si desume che ci fossero concerie a Serracapriola, per cui gli allevatori e i macellai locali vendevano le pelli per lo più di pecore e capre, macellate al mattatoio comunale, schènnàgge, a commercianti forestieri. Soltanto i primi bastai, mmèstère, ricordati con i nomignoli: Sceróne, Tènucce, Cellése, conciavano qualche pelle di asino o di maiale per farne i basti.
Gli artigiani del cuoio che operavano nel nostro paese erano i sellai e i calzolai.
Per più di un millennio i sellai, sùllère, ebbero un ruolo fondamentale al servizio dell’agricoltura e del trasporto in genere. Grazie alla loro inventiva nacque l’attacco degli animali da tiro che permise di sfruttarne tutta la forza proveniente dal pettorale e dall’incollatura. Si ebbero così arature più profonde e carichi più pesanti trasportati con minor sforzo. Di questi artigiani che operavano in paese ne ricordiamo alcuni impressi nella memoria dei nostri contadini: Salvatore Gentile, Emilio Faenza, Fortunato Colescia, Giuseppe e Antonio de Simio, Mario Balice. Abilissimi nella lavorazione del cuoio, essi usavano anche il crine, la paglia e la lana per confezionare i finimenti, guèrneménte. Per bardare gli animali da cavalcare, preparavano le sagome di pelle, già tranciata, tagliandole a mano con la mezzaluna per costruire le eleganti selle da cavallo. I rustici basti, mmàste, per gli asini e i muli, erano costituiti da un telaio formato da due arcioni in legno ricurvi a semicerchio, còrve, collegati tra loro da una parete di legno a volta, che veniva ricoperta di pelle. Le parti sottostanti a contatto dei dorsi degli animali erano di tela. Dopo aver forato la pelle con la lesina, sugghje, con grossi aghi d’acciaio diritti o ricurvi, èquèrdène, (èche dè vàrde, aghi per cucire le barde, rudimentali basti di tela), utensili indispensabili a questi artigiani, cucivano con spago impeciato le parti delle selle che man mano venivano imbottite di paglia o di crine. C’era anche chi si faceva costruire il pezzo unico particolare. Nel 1900 l’avv. Carlo de Nardellis, avendo visto a Napoli il figlio del duca d’Aosta cavalcare su una piccola sella con cintura di sicurezza (antesignana del moderno seggiolino da auto, per bambini), se ne fece costruire una simile dal suo sellaio per il figlio Enrico. Le selle erano corredate dalle staffe, dal sottopancia, dal sottocoda, dal pettorale. Completavano la bardatura le redini e la cavezza, chèpézze, spesso decorata con borchie d’ottone. Il lavoro dei sellai diventò più agevole quando furono introdotte nelle loro botteghe le macchine da cucire. Questi artigiani confezionavano anche le bisacce, vusàzze, di tela resistente, che i contadini mettevano sui basti degli animali da soma, lasciando pendere ai lati le due grosse tasche, capaci di contenere viveri e prodotti agricoli.
Per il tiro pesante al carretto, esclusa la sella, venivano aggiunti altri finimenti. La cavezza, chèpézze, con il paraocchi e il morso, a cui erano fissate le redini, cingeva la testa del cavallo. Il collare, cùllère, imbottito di paglia e ricoperto di cuoio, s’infilava al collo dell’animale. Aveva ai lati due assi di legno forati, pijunghe (con due anelli dove passavano le redini) a cui erano fissati funi rivestite di cuoio, fesckèle, che a mo’ di cappio si agganciavano alle stanghe del carro. Il sellino, vèrdèlle, assicurato all’animale da una striscia di cuoio, sottèpanze, portava davanti un’alzata dritta a forma di scudo, decoratissimo, di solito sbalzato in rame o alpacca con le iniziali del nome e cognome del proprietario e con una grossa cinghia, cengnóne, si agganciava alle stanghe del mezzo. L’imbraca, vrèche, formata da larghe strisce di cuoio fasciava in parte la groppa e le cosce del cavallo. Completava la bardatura il sottocoda, strècchèle, che passava sotto la coda. Per gli attacchi più leggeri ai calessi o alle carrozze si metteva l’elegante cavalletto di metallo. Quando si andava in pellegrinaggio ai vari santuari chi trèjne e i scèrèbàlle i cavalli venivano vestiti a festa con sonagliere e con i finimenti, tirati a lucido, addobbati con piume colorate e cu tuppe, un fiocco di pelo di faina, posto in cima al collare. I frustini, screjète, legati a lunghi manici di legno tornito, venivano fatti con lunghe strisce di cuoio, intrecciate, terminanti con cordoncini colorati, puntètte, che erroneamente si pensava procurassero gli schiocchi. Tutto questo grazie al lavoro dei sellai che, con l’avvento della meccanizzazione presero strade diverse: alcuni emigrarono, altri cambiarono mestiere. I rimanenti, evolvendosi con i tempi, restarono nelle loro botteghe con la qualifica di tappezzieri per curare i finimenti delle automobili, i tendaggi delle case, le poltrone dei salotti. Ma da qualche anno Mario Balice, Giuseppe Santelia e Giuseppe Stizza, nonostante la loro conclamata bravura, hanno chiuso i laboratori, poiché, a detta degli stessi, oberati da onerose tasse.