Intervento programmato di L. Ciannilli su “impresa e mercato: crescita o declino” svolto a Roma il 20 Novembre 2006

Il ruolo strategico della distribuzione commerciale per veicolare il “made in Italy”


Nessun governo in Italia, con il debito pubblico e le ataviche pastoie che abbiamo, che impediscono di inciderlo seriamente, riuscirà mai, per due ragioni fondamentali, a rilanciare l'economia usando la leva fiscale:

1) perché i margini di manovra per compiere interventi in grado di dare una scossa al sistema sono estremamente ridotti;

2) perché gli italiani, ma in particolare l'imprenditoria italiana, dati i precedenti, è sfiduciata e per ridarle fiducia e farla tornare ad investire con entusiasmo ha bisogno di scelte validi, convincenti e non di palliativi o, addirittura, di interventi punitivi come sta facendo l'attuale Esecutivo.

Fissati questi principi, in particolare il secondo: la mancanza cioè di fiducia, speranza nel futuro, un rischio, per certi aspetti emerso (e per l'Italia ancor più accentuato rispetto al resto dell'Europa e del Mondo occidentale) anche dalle motivazioni di assegnazione dei recenti primi Nobel per l'Economia e per la Pace, non resta che una strada da intraprendere: quella della valorizzazione del “commercio e della distribuzione”.

Se è vero, come è vero, che il prezioso giacimento dell'Italia, oggi, si chiama “made in Italy” e, se è vero, come è vero, che questa ricchezza non ancora perfettamente nota e condivisa è stata creata in oltre mezzo secolo di storia dell'economia italiana, da sconosciuti, anonimi piccoli e medi imprenditori, ebbene allora è quanto meno ingeneroso dire oggi ai loro eredi e discendenti che sarebbero una palla al piede allo sviluppo della nostra nazione, perché o diventano grandi o spariscono dal mercato.
Sia ben chiaro a tutti un punto: se dovesse mollare la presa o sparisse dal mercato la piccola e media impresa, non sono quei singoli imprenditori che spariscono, sparisce il “sistema Italia”.

Casa si può fare, allora, perché questo non succeda?

Una cosa soltanto si può e si deve con urgenza fare: assegnare un ruolo e una funzione diversa ai settori del “commercio” e della “distribuzione”. Affinchè sia il settore commerciale, ancora una volta, ad interagire ed aiutare la piccola e media impresa, produttrice soprattutto di beni di consumo e durevoli, per veicolarli all'estero, insieme e non separatamente, ciascuna per proprio conto, a conquistare nuovi mercati e a rafforzare la presenza italiana in quelli in cui il nostro “made in Italy” è già presente.

Sole 24 Ore di lunedì 23 Ottobre 2006: <<Una parte della imprese italiane sta facendo miracoli, basti pensare alla forte tenuta, a valore, dell'alimentare: esportiamo prodotti con prezzi superiori al passato. Purtroppo, però, l'innovazione delle imprese viene riproposta sempre all'interno dei settori tradizionali del 'made in Italy', quelli esposti alla concorrenza dei Paesi emergenti>>.


Oggi, oltre il 60% della grande distribuzione al dettaglio sul nostro territorio nazionale, parla tutte le lingue d'Europa: francese, prima di tutto, poi tedesco, sia di parte germanica che austriaca, infine spagnolo e inglese.
L'Italia invece, all'estero, su questo versante e in particolare nella Gdo, è praticamente …muta.

Un'altra recente indagine, sempre del Sole 24 Ore sullo stato e le potenzialità del “franchising” per veicolare il “made in Italy”, indicava in 4.740 i negozi ed esercizi italiani nel Mondo: 1.103 negozi di abbigliamento, 301 negozi di pelletteria e calzature, 126 negozi di prodotti specialistici, 87 di mobili e arredo e il resto servizi. Nessun grande magazzino, nessun supermercato, nessun ipermercato, nessun discount e neppure nessun 'cash & carry'. Ovvero, la presenza italiana è come un granellino di sabbia nel deserto del Sahara.


La “distribuzione” e il “commercio” devono divenire elemento di coagulo e aggregare il mondo della produzione, di quella piccola e media impresa che, da sola, fatica ad andare sui mercati globali.
Produzioni artigianali, industriali di qualità, ma soprattutto produzioni agricole, se si vuole seriamente dare una mano a questo settore, ridotto ormai al 2,4% del PIL, come ha dichiarato l'attuale Ministro in carica.
Riflettiamoci, l'antico settore “primario” contribuisce alla formazione della ricchezza nazionale addirittura meno di quanto concorrono ormai gli incidenti stradali: che hanno raggiunto la spaventosa percentuale del 3,4% del PIL, con la loro lunga e ripetitiva sequenza di morti e feriti che hanno fatto proliferare agenzie di infortunistica ormai quasi in ogni Comune.

“Distribuzione e commercio”, quale settore strategico, alleato e non nemico di quello “agricolo”, per smetterla con la guerra tra poveri.


C'è allora da chiedersi: a chi sono giovate e giovano le campagne denigratorie e gli attacchi ai poveri commercianti e fruttaroli, da parte del mondo agricolo e delle associazioni agricole, accusati di far crescere ingiustificatamente i prezzi in questi anni?

Ci si rende conto che si parla del nulla e che queste polemiche sono organizzate e montate ad arte per distrarre l'attenzione da argomenti più seri o, soprattutto, per evitare di affrontare l'argomento con serietà?

Ancora il Sole 24 Ore, di sabato 12 Agosto 2006: <<Agricoltura in affanno. Crescono i prodotti esteri anche sulle tavole del nostro Paese. In Emilia Romagna il 52,2% degli acquisti arriva da altro confine >> (e la Spagna sta facendo la parte del leone).

E' lecito, dopo 8 anni, chiedere quali benefici ha prodotto il decreto Bersani 118/98? E a chi?
Ai consumatori? Agli operatori del commercio nazionali (Coop e Conad, per esempio e per fare qualche nome di coloro che questo decreto sin dal 1989 lo coltivavano e tenevano nei cassetti della Regione Emilia Romagna)? Ai lavoratori del settore? A chi, dopo che ormai è acclarato che la distribuzione nel Centro e Nord Italia è allineata ai livelli di concorrenzialità, in termini di presenza di Gdo, con gli altri paesi europei, chiamati in causa dagli esperti come modelli da imitare?

Gli unici ad averne beneficiato, senza dirci neppure grazie, credo lo si possa ormai affermare sono, appunto, le catene distributive straniere che operano e continuano ad espandersi in Italia.


Perché il settore agricolo, anziché organizzare autonomamente promozione e dimostrazioni di assaggio di prodotti sulle piazze italiane non prova a cercare un accordo con la distribuzione commerciale? Soprattutto la piccola e media distribuzione, perché quella grande lo strangolerebbe, sottomettendolo alle proprie logiche imprenditoriali e, insieme, approdare sulle piazze d'Europa e del Mondo per far degustare ai consumatori esteri la qualità del “made in Italy”?
Perfino l'Olio, il nostro prodotto d'eccellenza è minacciato, addirittura in Europa, che ha bocciato l'obbligo di indicare in etichetta il Paese di orgine. Il motivo? Paradossale: <<Inciterebbe i consumatori a preferire prodotti italiani>>, come ha denunciato sul settimanale Oggi l'esperta Prof. Anna Bartolini (che diversi anni fa, sicuramente più di 20, di fronte all'analisi di una bottiglia dell'Olio di Serracapriola che, personalmente, le chiesi di effettuare, rimase estasiata del risultato).

Il settore del commercio, insieme a quello dell'agricoltura e al mondo dell'artigianato e dell'industria, impegnarsi per dar vita a punti di vendita del “made in Italy” all'estero.
Anche per saggiare se i governi di Francia, Germania, Inghilterra, Belgio, Spagna, Stati Uniti, Cina ci danno le stesse accoglienze entusiastiche, in nome della globalizzazione, che l'Italia ha finora riservato ai loro imprenditori e marchi d'impresa?

E, se questo dovesse succedere (e può succedere), si ha idea di cosa significherebbe per i nostri giovani?

Quali prospettive occupazionali e professionali si aprirebbero per loro anziché continuare ad essere umiliati, come avviene oggi, con lavori precari fino a 35 anni e oltre, per poi essere sbattuti fuori dal circuito produttivo a 40. A meno che, autonomamente e in un contesto fortunatamente diverso rispetto ai loro padri o nonni, non decidano di abbandonare l'Italia per andarsene all'estero.

I talenti made in India invadono i mercati, riportava sabato 28 Ottobre un quotidiano a tiratura nazionale. E perché i talenti made in Italy, non possono, anche loro, invadere i mercati del mondo?

E quali prospettive ulteriori si potrebbero aprire attivando e coinvolgendo le potenzialità di 3,5 milioni di italiani all'estero e oltre 60 milioni di oriundi?

E se infine, gli stranieri che arrivano e ancor più arriveranno in Italia, per studio o per lavoro, li formassimo (francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi lo fanno da sempre) affinché possano, come è desiderio innato di qualsiasi essere umano, ritornare nelle loro terre e diventare ambasciatori ed importatori dall'Italia, dando un'ulteriore motivazione, politica ed economica, alla inevitabile convivenza con altri popoli, tradizioni, costumi, culture, bene, quale ulteriore apporto costituirebbe tutto questo a vantaggio dell'Italia?

E non tocco, per ragioni di tempo e spazio concessomi, tutti i riflessi che un'operazione di grande portata come questa avrebbe sul turismo e sull'attrazione turistica verso il nostro Paese, il nostro Sud; trasformando quella finestra o quel balcone sul Mediterraneo protesi oggi verso la disperazione del Terzo Mondo in un ponte per riscoprire e valorizzare quelle terre che furono nei secoli e millenni passati la culla dell'uomo e della civiltà.

Ecco allora, tornando al tema iniziale, che la nostra economia, forse per la prima volta nella storia dell'Italia Unita, anziché rincorrere e raccogliere le briciole che gli altri lasciano cadere lungo il percorso della ripresa, si porta, se non alla testa, almeno alla pari di alcuni altri Stati che ora ci sovrastano. Senza più timori reverenziali.
Ecco allora che i governi, se saranno stati capace di costruire le condizioni per aiutare questa trasformazione, avranno uno spazio di azione che non deve più scontrarsi con gli zerovirgola degli interventi fiscali eppoi anche penalizzati da questa o quella autorità internazionale.

La gente, pardon, i “consumatori”, come si definiscono oggi, riprenderà a consumare non perché qualcuno glielo imponga per decreto ma perché è cosciente e consapevole, come in ogni sana e accorta famiglia, che potrà nel breve-medio termine ricostituire le scorte, con tutto ciò che ne consegue quando una famiglia è tranquilla e, di conseguenza, felice, non è oppressa dalle ristrettezze economiche. Non di rado in questi ultimi anni causa di tante tragedie familiari.

Luigi A. Ciannilli