PREFAZIONE

In uno dei tranquilli vagabondaggi vespertini di ora sono parecchi anni, si pensò con alcuni giovani cultori di storia cittadina di dar vita ad una serie di pubblicazioni, e storiche e scientifiche nella quale avrebbero dovuto trovar degno posto, curate da studiosi di seria preparazione specifica, tutte quelle opere, rare o inedite, che, scritte da sanseveresi, danno comunque e lustro e nobiltà alla nostra Terra. 

Il nostro campo di azione, di cui si elaborò un piano organico di lavoro e si studiarono le possibilità finanziarie, avrebbe dovuto in un primo tempo limitarsi alla ristampa critica dell'opera quattrocentesca con la quale Agostino Colombre dette alla zootomia basi scientifiche e alla zooiatria più ampi orizzonti; alla ristampa critica dell'opera eruditissima di Matteo Fraccacreta, nella quale avrebbe dovuto essere incluso, completandola, il sesto volume, che si conservava manoscritto nella biblioteca Nittoli, e che illustra con dottrina di prima mano e con grande equanimità, meriti indiscussi dello storico insigne che onora Sansevero e la Capitanata, fatti regionali e cittadini dell'ultimo scorcio del secolo XVIII; e, infine, alla stampa della cronaca inedita nella quale il Lucchino descrive a vivi colori e aneddoticamente i fatti più salienti che caratterizzano il movimento tellurico che nei primi del secolo XVII ridusse la nostra città e le terre finitime in un mucchio di rovine.
La fede nel successo dell'iniziativa e soprattutto la coscienza netta di fare opera meritevole, stavano per tradurre in atto il nostro proposito, cui non mancava il più illuminato entusiasmo.
Ma la Guerra lunga ed atroce che volemmo e che subimmo, ci sospinse invece ad assolvere con scagliata anima il nostro dovere di soldati. 
Che se coronò i nostri sforzi concordi dando all'Italia i confini che la natura le creò e il suo posto di gloria e di potenza nel mondo, e se calmò nell'entusiasmo della vittoria con tanto eroismo conseguita le nostre ardenti ansie quadriennali, Vittorio Veneto non ci dette tuttavia quella tranquillità di spirito che la Patria dissanguata ed esausta e il fiore della nostra gioventù decimata e martoriata ci davano il diritto di sperare.
Il vento di follia sanguinaria che s'abbattè sull'Italia, squassandola ed arrossandola di sangue fraterno, distolse ancora dalle cure della pace quella gioventù che la guerra contro lo straniero aveva reso più che mai pensosa del domani. La lotta fratricida che nel nume di una civiltà mongolica, ove gli orrori atavici di una millenaria barbarie tentano invano di orpellarsi di quanto l'idealità umana ha di più alto e di più puro, infuriò da un capo all'altro dell'Italia, chiamò ancora una volta a raccolta i reduci dalla trincera perchè la nostra civiltà che per ventisei secoli dettò legge ai popoli del mondo, e la nostra famiglia, non ne fossero travolte e distrutte.
E si vinse ancora.
E l'Italia fu salva.
E sui riconquistati confini naturali furono piantati i segni fieri di Roma, che si appresta a portare in altre terre vicine e lontane, di là dai monti e di là dal mare, le insegne immortali del suo Impero ricostituito.
La pace, pur nel travaglio del suo assestamento, è ritornata con tutte le sue opere sonanti di lavoro e fervide di fede. E nuove aspirazioni sono sorte, che prima non sospettavamo nemmanco, e nuovi doveri.
Dei giovani di allora, alcuni riposano tranquilli in qualche riarsa dolina del Carso o in qualche forra alpina o in qualche romito cimitero lunghesse le rive del Piave ; altri, maturi oramai, hanno scelto la propria strada, e la seguono; altri infine, distratti da altre cure, hanno portato lontano dalla cerchia della piccola terra nativa la loro diuturna silenziosa attività intelligente. Nell'accolta di giovani cui, ora fanno i vent'anni, sorridevano tanti sogni di fervore operoso e, forse, anche di gloria a venire, a contarci, Dio! E nei pochi rimasti, quanti dubbi inespressi sull'utilità di dar vita finalmente ai nostri propositi di allora!
In tali condizioni, che fare ?
Rompere gli indugi - e agire, perchè i dubbiosi si scuotano e mi seguano, e perchè altre intelligenti energie che il travagliato dopoguerra ha temprato alle opere del sapere, accolgano il mio invito e continuino l'opera ch'io con ferma fede inizio.

Appunto perchè è in me la sensazione viva che l'opera mia, maturata negli ozi estivi in riva d'Arno e mandata avanti con assidua cura, non sarà vana se varrà a stingere intorno a me, in un concorde lavoro di rivalutazione, quanti della nostra terra conoscono ed amano la storia millenaria e gli uomini che cotesta storia hanno costruita o comunque illustrata.
Non già che le vicende della nostra città presentino qualcuno di quei fatti risolutivi che valgano a caratterizzare un'epoca o un periodo. Ma, incastriamola nel quadro grandioso della storia del Regno di Napoli, ed allora non tarderemo ad avvederci come la triennale piccola modesta sotto certi aspetti minuziosa cronaca dell' istrutto e timorato prete del seicento, porti in sè, con i richiami incidentali e quasi sempre in tono minore a fatti, uomini e date che sono oramai acquisiti alla storia del Regno e dell'Italia, dilaniati uno e l'altra da lunghe e aspre lotte fra potenze straniere, gli elementi di una importanza che trascende la ristretta cerchia delle mura cittadine, come quelli che sono gli echi indeboliti ma pur sempre vivi del travaglio che agitava in quei tempi l'Italia senza pace.
Piccola cronaca dei fatti che si sono svolti nello spazio di tre anni fra le mura di un Castello che la benignità di un Pontefice eleva agii onori di città, nella quale l'anima del cronista, senza infingimenti e senza lenocini verbali, si mostra nella sua complessa integrità Non avete la percezione chiara dell'intimo compiacimento di sacerdote e di cittadino di elezione che tiene il cronista quand'egli vi dà con meticolosa cura il peso in quintali della campana maggiore di questa o di quella chiesa, o quando s'indugia a descrivere minutamente le cappellucce che adornano una qualunque chiesa parrocchiale, in un tentativo forse inconscio, umano certamente, di stani lire fra di esse una tal quale graduatoria di preminenza finanziaria e fors'anco artistica ? 
Stemma della Città di San Severo che evoca il Miracolo di San Severino E quanto profondo fervore pio nella disadorna rievocazione del leggendario miracolo di S. Severino - piccolo fatto che, in sè, non oltrepassa le mura cittadine, come quello che ha come campo e limite il solo sentimento dei devoti ma che non tarda ad acquistare una certa sapida importanza se lo inquadriamo nel clima storico del Regno nel secolo XVI e se gli diamo come sfondo l'Italia dilaniata dalle lotte egemoniche tra francesi e spagnuoli. E con che orgoglio indaga e illustra le origini mitiche della nostra terra, e quale profonda gioia di erudito traspare dalle sue biografie di Diomede, di Calcante, di Podalirio ! Ed eccovi il caso inusitato del cane, ed egli n'è tutto stupito; ed eccovi l'aneddoto sapido che illumina di scorcio la piccola vita cittadina ed eccovi la viva dipintura del canonico Nòttula  in molte cose liberale, in altre tenace; ed eccovi la confessata credenza nei presagi; ed eccovi infine la dissertazione filosofica contro l'autorità di Plinio sulle cause dei terremoti.
E i contrasti!  Che di più umanamente bello della lotta interiore che tutto l'agita fra l'orgoglio di vedere la sua terra di adozione elevata all'onore di Città e il dolore di saperla non più libera ma serva? Ed ecco, e l'intimo travaglio gli si risolve in un'apostrofe veemente contro quegli illusi che, per vanità di governare, secondano le mire del feudatario, determinando inconsciamente la fine del Governo dei Quaranta, per il quale l'Università serbava ancora una tal quale indipendenza !
Questa - tutta intessuta di piccoli fatti di vita cittadina, di piccoli richiami storici, di maravigliose leggende eroiche, di minuziose descrizioni di chiese e di conventi, di piccoli aneddoti la cornice, nella quale campeggia il quadro dantesco della sua terra ridotta in un mucchio di rovine.
Diamo come sfondo a questa modesta cronaca triennale di storia cittadina l'Italia secentesca che ritrova nel consolidamento della potenza spagnuola in Napoli e pace e tranquillità di opere, e avremo, così, di scorcio, forse meglio che in un'opera ponderosa, una dipintura viva e fedele di quelle che erano le condizioni politiche culturali economiche della Puglia feudale.
Per tanto, la Cronaca ch'io presento per la prima volta ai miei, concittadini colti, e massime ai giovani come quelli che dalle voci del passato sapranno trarre insegnamenti per la grandezza a venire, ha un interesse generale, se la si inquadra nell'epoca in cui è stata scritta ; e un interesse particolare, se la si considera come stralciata dalle vicende dell'epoca, e quindi, non già come storia, ma unicamente come una piccola fonte di storia. Nell'uno e nell'altro caso, essa, a pensarci, racchiude in se gli elementi ricostruttivi dei fatti che fino a ora fanno i tre secoli si sono svolti nella nostra ferra.
Certo, a pubblicarla così come l'autore l'ha scritta, la Cronaca riuscirebbe nella sua interezza tutt'altro che intelligibile alla generalità dei lettori . Epperò, varranno a lumeggiare quanto essa contiene di riferimenti e di richiami a fatti anteriori al secolo XVII,  le note ch'io vi ho apposto, e delle quali si avvantaggeranno i lettori nella ricostruzione delle vicende che in prosieguo di tempo costituiranno il fatto storico municipale. E, ad illustrare quanto il cronista scrive, ho creduto di dovermi largamente e di preferenza servire, nell'intento di conseguire nei limiti del possibile quell'unità psicologica di narrazione che valga a dare ai fatti una tal quale linearità di impostazione di espressione di interpretazione, dell'opera stessa del cronista. 
Ma la narrazione del movimento tellurico che ora fanno i trecent'anni ridusse Sansevero in un mucchio di rovine, io ho sfrondato di quanto di superfluo, e quindi di inutile agli effetti della vivezza della narrazione, al cronista è piaciuto di interpolarvi, quasi ad accrescere l'angoscia in lui prodotta dalla distruzione una città le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Ho omesso quindi le biografie di Diomede, di Calcante, e di Podalirio e il sonetto italiano e i distici latini in lode di S. Severino, uno e gli altri pressocchè indecifrabili, come quelli che, generati in un momento di incoercibile estro apollineo, un qualche pio copista intinto di lettere credette di potervi impunemente aggiungere.
Infine, perchè il lettore possa rendersi ragione dei danni che il terremoto arrecò alla città, ho dato come note le minuziose descrizioni, evidentemente scritte prima del luglio 1627, che il Lucchino dà delle singole chiese e dei singoli conventi.

Tutti gli apografi della Cronaca che si posseggono da alcune vecchie famiglie di S. Severo, hanno come titolo: Origine, vicende, stato, caduta della Città di Sansevero - Con la descrizione di alcune Terre, Casali e Città di essa convicine del - Rev.do D. Giulio Lucchino Arciprete della Chiesa Parrocchiale di S. Nicola - Sansevero, A.D. 1630.
Due solamente, e, fra questi, quello del Russi, che mi è venuto, insieme con altri pochi manoscritti, dall'archivio del compianto prof. Gaetano del Vecchio, portano la variante: Arciprete della Chiesa Parrocchiale di S. Severino.- Sansevero, A. D. 1630.
Matteo Fraccacreta e gli altri che hanno scritto di Sansevero e delle sue vicende millenarie, ogni qual volta citano il manoscritto ne dicono autore Giulio Lucchino, Arciprete di S. Nicola. Nessuno di essi, neppure il Fraccacreta, per altro così minuzioso e così prudente nella ricerca delle fonti, sospettò mai che altri potesse essere l'autore della cronaca, della cui autorità sì spesso si avvalgono.
Ond'è che, assolvendo l'impegno ch'io, ora fanno i venti anni, avevo assunto con me medesimo, di pubblicare, arricchita di note illustrative, la Cronaca, mi son dato alla ricerca di notizie che valessero ad illuminarmi intorno al suo autore. E queste notizie, sia pur frammentarie, ho avuto la ventura di trovare nelle carte del prof. Del Vecchio, il quale seppe trarle con somma diligenza da fonti non sospette, quali gli Archivi, modesti e purtroppo cronologicamente lacunari delle chiese di S. Nicola, di S. Severino e del Carmine.
"Mi son messo dunque a frugare - scrive il Del Vecchio - tra i documenti di quella di S. Nicola, e, dopo non poche indagini, dalle fedi di battesimo e di morte scritte dallo stesso Giulio Lucchino con mia grande meraviglia ho potuto constatare che costui fu Curato di quella Parrocchia dal 22 maggio al 1 luglio del 1599, e Arciprete della medesima dal 2 luglio 1599 a tutto maggio 1608, e che, secondo l'atto di morte scritto da Ferdinando De Magris che gli successe nella carica, egli morì il 31 maggio 1608, cioè poco meno di diciannove anni prima che il terremoto distruggesse la città. D'altra parte, mentre in un istrumento del 2 febbraio 1609 a rogito Notaio Cesare Spatari compare quale testimone il nome del Rev.do D. Ferdinando De Magris senz'altra qualifica, in un altro istrumento dell'8 aprile 1609 a rogito del medesimo Notaio Spatari, quale testimone in un contratto fra Orazio De Magris e Donato Pazienzia compare il nome del Rev.do D. Ferdinando De Magris, Archip.r S.i Nicolai. Quindi, il De Magris, succedendo a Giulio Lucchino, fu verosimilmente assunto alla carica di Arciprete della Parrocchia di S. Nicola nel marzo o nell'aprile del 1609. Ad evidenza era dunque dimostrato che l'autore del manoscritto ove si narrano i fatti che si sono svolti in S. Severo dal 1627 al 1630 non poteva essere Giulio Lucchino, come quegli ch'era morto da circa diciannove anni, e propriamente il 31 maggio 1608".
"La questione intanto mi si presentava sotto tutt'altro aspetto : infatti, non si trattava più di sapere se l'autore fosse Arciprete dell'una o dell'altra Parrocchia, ma chi egli fosse, e come il manoscritto venisse attribuito a Giulio Lucchino. Volendo per tanto continuare le ricerche, ho preso ad esaminare i documenti dell'archivio di S. Severino. Nessuno che portasse il nome Lucchino ho trovato che abbia mai ricoperta la carica di Arciprete di quella Chiesa Parrocchiale; solamente, tra le fedi di battesimo, ne ho rinvenute cinque o sei con la data 1602 scritte 'da Giulio Lucchino Arciprete di S. Nicola, con licenza dell'Arciprete di S. Severino".
"Ma dopo qualche tempo mi fu possibile di risolvere la questione, e propriamente allor che rivolsi le mie indagini all'Archivio della chiesa del Carmine, ove supponevo dovessero sicuramente esistere dei documenti che mi avrebbero giovato a risolvere un così intricato problema. Difatti, da alcuni atti pubblici dei Notai Cesare Spatari e Giacinto Patulli, le cui schede costituiscono in massima parte quell'Archivio, si rileva che Giulio Lucchino era cognato del Notaio Giovannantonio Galluccio e di Scipione Stella, e che aveva quattro sorelle e due fratelli: Antonio, anch'egli prete, ed Ottavio. D'altra parte, l'autore della Cronaca si dice anch'egli cognato dei medesimi Galluccio e Stella. Non v'ha dubbio quindi che la paternità della Cronaca devesi attribuire ad un fratello di Giulio Lucchino, e propriamente ad Antonio, il cui nome compare in parecchi documenti dell'epoca. Visse parecchi anni dopo il terremoto e, come un tempo Giulio, fu anch'egli Partecipante della Chiesa Parrocchiale di S. Giovanni, e, infine, come manifesto, Protonotario Apostolico. Di Ottavio, a malgrado ricerche pazienti, non trovo fatta menzione che una sol volta, e incidentalmente, nel testamento del fratello Giulio. Pare anzi ch'egli non vivesse con i suoi in S. Severo, ma probabilmente nella terra nativa di Montecalvo".
"Ma come va che il manoscritto porta sul frontespizio il nome di Giulio Lucchino ?
Devo confessare che a questa domanda non so dare una risposta soddisfacente. Dico solo che tra le altre congetture che possono farsi, la più plausibile mi pare sia questa : che Giulio ha dato un certo principio all'opera, raccogliendo notizie intorno all'origine di Sansevero e scrivendo forse la vita di Diomede, di Calcante e di Podalirio, trattando cioè della parte più ricca di erudizione ; e che Antonio poi, morto il fratello, giovandosi del materiale da costui raccolto e molto aggiungendo del proprio, abbia composto l'opera quale oggi la leggiamo. Sicchè dobbiamo ritenere Antonio quale autore di essa, come quegli che ne scrisse la parte maggiore e più interessante, cioè quella prettamente storica. Il manoscritto sarà stato poscia inscientemente attribuito all'Arciprete Giulio dai propri familiari e da costoro consegnato a persone anch'esse inesperte cui era prediletto il nome di Giulio a preferenza di quello di Antonio".

Fin qui la lucida nota critica con la quale il Del Vecchio risolve definitivamente la questione della paternità dello scritto.
Accetto le sue conclusioni, e sul frontespizio dell'opera al nome di Giulio sostituisco senz'altro quello di Antonio Lucchino.
Devo escludere tuttavia che a Giulio Lucchino possa attribuirsi la paternità di quella parte della Cronaca in cui si tessono le biografie di Diomede, di Calcante e di Podalirio, per poco che mi soffermi su quanto il cronista scrive nella vita di Podalirio : "Sicchè questo Castel Drione ebbe il suo principio 400 anni e più avanti Roma ; ed anni 1154 avanti a Cristo : e da che ebbe il nome di Sansevero e prese la fece Cristiana [536] sino all'anno presente, sono passati anni 1091; e da che fu edificato sono trascorsi anni 2781". Quindi, questa parte della Cronaca, come chiaramente risulta dal computo delle date che ognuno può agevolmente rifare, rimonta al 1627, cioè a circa diciannove anni dopo la morte dell'Arciprete Giulio.
Ritengo pertanto che tutta l'opera deva attribuirsi ad Antonio Lucchino, e come tale la presento alla nostra gioventù pensosa, la quale, non ne dubito, saprà assolvere degnamente, in un domani che mi auguro prossimo, il compito che quanti nutriamo illuminato amore per la nostra terra le assegniamo: portare a diretto contatto della nostra gente, dandone una ristampa critica integrale, quelle opere fondamentali che della nostra gente testimoniano il passato glorioso e nel campo delle armi e del diritto e dell'arte e in quello della scienza.
Ho detto Agostino Colombre e Matteo Fraccacreta.

NICOLA CHECCHIA

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o stesso anno che ebbe il titolo di Città, da libera che ella era si fe' suddita all'Ill.mo Giovanni Francesco di Sangro allora Marchese di Castelnuovo e Duca di Torremaggiore; il quale per nobiltà di progenie, eccellenza d'armi, coraggiosità d'animo ed esperienza di guerra e vittorie acquistate non solo in scaramuccie e giornate, ma eziandio in steccato, che non cedeva a' primi guerrieri e nobili del Regno. Per questa causa l'Udienza Regia con suo Tribunale, che era quivi, si trasferì in Lucera, ove ancora risiede; e molti nobili della città per non sopportare il giogo del vassallaggio, e per non soggettarsi al padrone, abbando­nate le proprie case e i poderi, se ne andarono ad abitare ne' luoghi liberi e Regi; e similmente si partirono le nobili famiglie Napolitane, restandovi solo alcuni Signori di Casa Regina, che ancora vi sono i posteri.

Sicchè in un medesimo anno fu priva della sua antica libertà, ed ebbe l'ornamento del titolo di città. Il Clero ebbe il Pastore, e il popolo e i secolari il Padronee si perdè la riputazione e l'utile, che gli apportava la residenza del Tribunale Regio: vero presagio della sua annichilazione e ruina, e si conobbe assai bene non molto anni dopo, che fu disfatto l'ordine del suo governo per l'autorità e potenza del Padrone.

Questo governo si reggeva a guisa di Republica da' Cittadini nobili, e l'ufficio non era a vita, ma anche de' successori della famiglia. Erano in numero di quaranta. Questi ogni anno convocavano il Consiglio di loro stessi, ed a voce si sceglievano quattro di essi che dovevano esercitare il governo di quell'anno, cioè il Mastrogiurato e tre Sindaci, a cui si assegnava certa limitazione di governo, che potevano effettuare essi quattro soli ; ma nelle cose di più importanza erano necessitati di convocare il Consiglio di quaranta, e sebbene non vi convenivano tutti, da venticinque in su potevano deliberare e conchiudere i negozi che si trattavano. Era questo governo così sodo e unito, che il Padrone cominciò a conoscere il suo dominio essere di niun momento, stando tutto il governo in mano de' nobili, e perpetuo come in effetto lo era. Dal che si mosse il principe Paolo figliuolo del suddetto Duca (che ancora vivendo il padre, pe' gran meriti che concorrevano nella sua persona aveva meritato da Sua Maestà questo titolo sopra Sansevero) a battere alla gagliarda per disfare sì fatto governo, e vi fece venire un Auditore della Provincia delegato dal Vicerè del Regno ad esplorare la volontà del Popolo ; il quale vedendosi perpetuamente privo di governare, ed odiando questo ufficio ne' nobili, a' quali pareva loro essere in certo modo soggetti, in consiglio generale accettarono la distruzione di esso, non vedendo che quella poca ambizione di governare li tirava alla totale loro oppressione: Fu insomma questo sì utile e nobile governo, con grandissimo gusto del Padrone, ridotto ad un certo modo popolare. Oh ! superbia ed ambizione di popolo, che col desiderio di governare, e colla sua instabilità e leggerezza si causa ognora calamità e ruina!  

San Severo nelle mappe del '500

Predisse la ruina di questa città, allora Castello, il Signor Cesare d'Evoli, Cavaliere di grandi lettere e filosofo de' primi del suo tempo, il quale abitava con sua famiglia in esso, avendo più volte detto pubblicamente che non molto tempo dopo dovea distruggersi ; ma non esplicò il modo.

Questo istesso gran filosofo predisse a molti particolari le loro calamità e rovine, ed, eziandio le morti, che, come riferirono ed ora riferiscono molti vecchi che lo conobbero, successero puntualmente.

Ma queste calamità ed altre tralasciando, anderò narrandone alcune occorse più moderne a tempi nostri, che, sebbene prima se ne fece poca stima, sono state ora assai ben conosciute come segni dell'ultima ruina.

La prima calamità, lasciandone molte altre addietro, fu l'anno 1617, che due tempeste crudelissime, una al giorno di S. Margherita e l'altra a' sette Settembre, vigilia della Natività della Reina de' Cieli, guastarono l'oliveti e le vigne. Quelli di S. Margherita menò grandini d'estrema grandezza, che una fra l'altre che viddi io cadere sopra una pietra, si divise in più di otto parti, ed ogni parte di essa era quanto una grossa noce; e in quella della vigilia della Natività, caso singolarissimo, cadde la grandine cinque volte sempre con ruina e accompagnata da spessa e densa caligine.

La seconda fu lo stesso anno che il Signor Duca di Ossuna, allora Vicerè del Regno, per molti disgusti ricevuti dal Principe Paolo, il quale alla gagliarda ed alla scoverta, facendo l'ufficio di vero buon figliuolo ed ottimo cittadino, si oppose a' suoi nascosti disegni che erano di farsi Re di Napoli, ove con sì fatto colore designava introdurre l'esercito, mandò in questa città ad alloggiare cinquecento Vailoni, la maggior parte eretici, con disegno di farla distruggere; e la tennero oppressa dalli 25 novembre sino a' 28 gennaio 1618, nel qual giorno si celebrava la festività di S. Sebastiano, uno de' Patroni e protettori della città, come si disse, da cui miracolosamente si ottenne la grazia ; e vi furono, oltre i danni delle case guaste e bruciate ed alberi, specialmente d'olive, tagliati nelle possessioni, da 3000 ducati d'interesse

CometeApparsero in questi tempi istessi due comete l'una appo dell'altra. La prima nell'ultimo del mese di Settembre e per tutto Ottobre, era di forma mirabile, di colore che tirava al rosso, appariva due ore avanti giorno verso Oriente; nel qual tempo morì Monsignor Ludovico Maggio, Vescovo di Lucera, de' Patrizi di Milano, uomo degno per le sue rare virtù, bontà di vita e liberali gentilezze, da es­sere anche dopo morto da tutti altrettanto onorato quanto in vita. E subito che sparve questa, apparve la seconda. Era una stella molto grande che aveva la coda all'ingiù a guisa di raggi lunghi, e tirava al color bruno; usciva tre ore avanti giorno dalla parte settentrionale, e s'alzava allo zenit di questa Città, e al tempo che era per sparire, verso l'alba, voltava la testa all'oriente e la coda all'occidente; e durò per tutto gennaio 1618. Ed io che più volte per curiosità la viddi, giudicai che oltre alle oppressioni presenti, doveva la misera città patire nell'avvenire assai più grandi calamità; come effettivamente successero.

La terza calamità sortì l'anno seguente, che mentre si vedevano le campagne fiorire per la gran quantità de' frutti, d'ulive e uve, che se ne sperava un'abbondantissima ricolta, in un subito, cosa veramente maravigliosa, apparve un' innumerabile quantità di vermi per tutte le possessioni e vigne, di grossezza quanto, il dito grosso della mano, e di lunghezza mezzo palmo, e chi poco più e chi poco meno; di colore altri neri, altri gialli e rossi, e altri di tutti questi colori ben distinti; ve n' erano anche di color verde, ed altri di color giallo e verde, che il loro invoglio sembrava un drappo turchesco ordinatamente dipinto da artificiose mani di eccellente artista; e tutti avevano egualmente il muso a guisa di bruco, e numero grande di piedi a due ordini, dalla coda fin presso alla bocca. I quali non solo divoravano i pampini delle viti e fronde degli alberi, ma i fiori, i frutti e l'agreste e se altro di buono vi fosse stato. E comechè la cosa fu inopinata, non altre volte vista, conforme la relazione de' vecchi, diede grande spavento, e molto più che non si sapeva il modo di distruggerli, anzi si dubitava (e così affermano gl'intendenti delle cose naturali) che dovessero causare pestilenza non poca. Si prese nulladimeno il buon parere di cavar uomini con forbici, che li tagliassero per mezzo, uccidendoli; e così fu fatto. E dissero quei destinati a tale opera che nel tagliarli sentivano gran fetore. E sebbene questo giovò non poco, come venne il caldo del sol Lione si creparono per la sazietà e il calore da loro stessi. Ma io e molti altri tenemmo che il Signor Iddio con la sua grande misericordia riparasse a tanta ruina; e però avertit manum suam, ed anche raffrenò la causa che doveva per mezzo di questi vermi recarci la pestilenza; giacchè si ricorse anche a Lui, con processioni, nelle quali si maledissero all'uso della Cattolica Chiesa.

Stemma della Diocesi di San Severo

La quarta calamità fu l'anno 1620, che fu presa Manfredonia da' Turchi, e in Sansevero si stette con grandissimo timore, dubitandosi che non contenti i Turchi della presa e bottino di Manfredonia avessero a fare scorreria per la Puglia. Il travaglio di ciò fu tanto grande che più delle due terze parti della città si partirono con i preziosi mobili, che nell'imminenza di quella furia potessero infardellare, e andarono per le campagne aperte, o in alcune torri forti, che noti si sarebbero così di subito potuto espugnare; ove dimorarono con: gran travaglio sino a che i Turchi si partirono alla volta di Levante.

Saccheggio case

La quinta calamità, o se vogliamo chiamarla segno, fu l'anno 1621, che a' sei di Agosto, tre ore avanti giorno, fu in questa Città un terremoto tanto veemente ed orribile che io, che mi svegliai a così gran tremore, viddi la mia casa come aprirsi in tutti quattro gli angoli, e quasi senza speranza di salute fuggii per uscir fuori alla strada; ed aperta la porta finì il tremore. E trovai molti uomini e donne in quella piazza, che dicevano esser durato tanto il tremore che essi erano risvegliati, vestiti e usciti poi fuori mentre ei durava, talchè, a mio giudizio, tremo la terra un mezzo quarto d'ora. Di poi rinnovò con una scossa, tanto terribile che fu miracolo che non cadde la città da' fondamenti; ma per grazia del Signore per allora non passò più avanti, nè fe' altro male; e, per quanto si seppe poi, ne' luoghi convicini fu tanto poco che appena s' intese. Sicchè a noi fu segno e vigilia della gran festa che dovea seguire conforme si dirà appresso.

La sesta calamità, o se vogliamo pure darle la denominazione di segno, fu l'anno 1624, che soprabbondò tanto l'acqua sotto la Città che i pozzi s'impirono sino alla sommità; e fu gran maraviglia, poiché i pozzi, de' quali è abbondantissima, tengono l'acqua bassa sette o otto passi, che sono cinquanta o cinquantacinque palmi; e per questo si rovinarono molte case. Di che accortisi li cittadini si die' per espediente di empire molti pozzi di terra; ed in tal modo si mantennero le case. Molte fosse di grano si marcirono, che si trovarono piene di acqua che scaturiva e cresceva di sotto, e s'alzava tanto che veniva bagnato il grano; e molte che erano vacue in molti luoghi della città si profondarono lasciando molte aperture in forma circolare. E si stava in gran timore che la città non fusse abissata, e di subito insorgesse un lago d'acqua.

In questo tempo alla parte bassa della città, poco lungi dalla Porta di Foggia, apparse un ruscelletto di acqua, che correva sino alla Cappella dello Spirito Santo, un miglio discosto per la strada che si va a Foggia; che, per quanto si scorgeva, era minerale, e ferrea. E sebbene non vi si pose cura, si poteva giudicare che questo era il luogo del tempio di Podalirio, che stava dalla parte bassa a piè del Castello, e che questa era l'acqua nominata da Strabone e riferita dal Cieco di Forlì e dall' Alberti, che usciva da quel tempio e i paesani usavano per le loro infermità e degli animali. La quale acqua non per potenza del falso Dio che si adorava in quel tempio, ma per virtù naturale, sanava quei morbi, come in Pozzuoli e in molti altri luoghi d'Italia si trovano di simili acque. Questo ruscelletto poi si disperse l'anno seguente quando calarono le acque de' pozzi al loro luogo.

E se dar si potesse credito agli Augurj, direi che questa ruina fu anche l'anno 1625 predetta dalla gran moltitudine di nottole, che noi nominiamo civette, che in un subito si udirono in tutt'i luoghi della città, che di notte e di giorno l'empivano di querule strida e d' inusitate lamentevoli voci ; ed erano in tanta quantità, che non era casa, sopra la quale non ve ne fussero cinque o sei. E similmente si vedevano nelle campagne sopra gli alberi, che in vero era cosa molto spaventevole ad udirle; e non si poteva sedar l'animo nella considerazione che avesse a succedere maggior calamità delle altre.

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Campagne

Per quattro giorni avanti del terremoto si vidde una quiete d'aria grandissima, che non spiravano venti, nemmeno una minima aura, ed i caldi erano eccessivi, e quasi insopportabili. Il sole tanto al nascere, quanto al tramontare, si vedea carico di vapori grossi, in maniera, che facilmente senza offensione vi si poteva fissare gli occhi; e il giorno del terremoto fu assai maggiore il caldo, la quiete e l'adombramento de' vapori attorno al sole.

Cominciarono ad udirsi, ma leggermente, i terremoti sin dall'anno precedente 1626, in ottobre, novembre e dicembre; in gennaio del 27, in febbraio, in marzo ed aprile: non s'udirono poi il maggio, e il giugno, sino a' trenta di luglio. E più di venti giorni prima fu una grandissima pioggia nella Puglia, e maggiore nelle nostre parti, che, ancorché fusse di mezza està, si vedevano le campagne piene di acque, che da lungi parevano laghi, e paludi, a cui poi seguirono caldi eccessivi.

A' ventisette di luglio, tre giorni precedenti, fu l'ecclissi della luna, che si oscurò tutta l'orbita, e dal principio dell'oscurazione sino alla fine vi passarono sei ore.

Si guastarono le acque de' pozzi e, con maraviglia e stupore di chi le gustava, davano odore sulfureo, e grave. E il giovedì, giorno precedente, si udirono molti lampi a guisa di tuoni occupati sotto alla terra ; e specialmente l'udirono alcuni gentil uomini, che stavano, pel caldo grandissimo, nel monistero de' Celestini a passare il tempo con que' Padri. E credo che vi sia stato anche il segno che suoi precedere a' terremoti, delle nubi lineate e bianche, o al nascere o al tramontare del sole, ma a questi segni non si pose cura, perchè non v' erano nè gli Anassimandri, nè i Ferecidi.

Vi fu un altro segno veduto un quarto d' ora avanti da Monsignor Illustrissimo Venturi, Vescovo della città; il quale da una finestra del palagio dove abitava, che riguardava il Monte Sant'Angelo, vidde una piccola nube, la quale velocissimamente se ne andava verso il detto monte; del che si maravigliò non poco, considerando come quella nube era spinta in tal maniera senza che spirasse vento o aura alcuna.

A' trenta di luglio dell'anno 1627, il venerdì, che, come si disse, con maggior forza che ne' giorni precedenti il sole faceva sentire il suo calore, e maggiori erano anche la quiete e la serenità del cielo, ogni persona avendo desinato, chi se ne stava racchiuso in casa, e chi in alcun luogo fresco; e molti s' erano ritirati nelle strade, dove gli edifici davano ombra, per fuggire al gran caldo. Io per alcuni affari mi ridussi in un orto all'incontro della Chiesa di Santa Maria della Grazie, ove erano da dieci altre persone.

Giunta l'ora fatale, sedici del giorno, si udì muggir la terra non a guisa d'un toro, ma di grandissimo tuono, che non si saprebbe dare altra comparazione, poichè offuscava la mente e l'udito ; ed appresso subito sì vidde ondeggiare la terra a guisa che sogliono l' onde nel maggior agitamento del mare, in maniera che io ed i miei compagni fummo battuti da quell'impeto di faccia a terra, e, senza mancar niente il muggito, nell'alzarci si sollevò ondeggiando di nuovo la terra, e di nuovo caddimo ; ma assai più la terza volta, che ondeggiò con maggiore rabbia che a me parse cadere da sopra un colle. Diede poi una scossa si grande e terribile verso ostro, che rovinò in un subito tutta la Città; e noi avanti a' nostri occhi viddimo, e udimmo, la ruina della Chiesa delle Grazie. Seguitò poi lentamente il tremore, ed alzati, che fummo, si vidde ingombrata, e coverta di una densissima caligine di polvere la Città ; e così si vidde sopra Torremaggiore, S. Paolo, Serra Capriola, Apricena e Lesina; con che quelle terre diedero segno ancora di loro ruina.

Storia sismica San Severo

Tutti, restati sbigottiti e pieni di timore, andammo con sollecito piede verso la Città per soccorrere i nostri parenti e cittadini, se si poteva; e durò tanto il tremore che giunsimo nella città, lontana da quel luogo quasi uno stadio, ed allora quel venticello fresco rinforzò, e quella polvere s'alzò in aria, la quale riverberando i raggi del sole, pareva di lontano, che fusse involta di fiamma di fuoco, e si potevano chiaramente vedere le ruine della misera città abbattuta e fracassata; e in un subito si rappresentò a' languidi occhi caso di molta pietà e compassione;  poichè oltre le alte e lamentevoli grida, che s'udivano per tutto dei salvi, che piangevano la comune e privata disgrazia, si vedevano uscir fuori della città le meste genti impolverate in maniera che non vi si poteva in modo alcuno scorgere effigie umana, e sembrava ognuno un ammasso di polvere; il che si aggiungeva maggior pietà e compassione vedendosi scaturire dalle ferite di quei miseri fonti anzi rivi di sangue, che scorrendo di sopra quella polvere, parevano tanti ruscelli, che corressero per arenose campagne. Si vedevano altri portar fuori corpi morti, altri semivivi, ed altri storpiati, che non potevano camminare; e li buttavano per la  campagna con tanti lamenti e pianti, che occupavano le menti, e poteva dirsi aver cuor d'aspro macigno chi non accompagnava loro con lamenti e pianti.  

Quei che non avevano patito cosa alcuna si davano attorno agli orti a far capanne con sprovieri di tela e lenzuoli, che si potevano con tanta necessità ritrovare. Noi intanto entrammo nella città, dove s'udivano maggiori i pianti e le strida, piangendo chi il padre, chi la madre, altri i figli, i fratelli e le sorelle, chi gli amici ; e in tanta confusione di cose quel che dava più terrore era che la miseria dell'uno affliggeva maggiormente l'altro in maniera che vano sembrava ogni soccorso ed ajuto; ed in noi s'accrebbe più la maraviglia e lo stupore vedendo al tutto ed in un punto rovinata quella città, che duemilacentottantanove anni si era mantenuta in piedi e nella sua riputazione. Non vi era più forma di casamenti, nè di palagi, nè di Chiese; le strade erano tutte piene di monti di pietre, che non vi si poteva camminare se non a brancolone e con gran difficoltà. Corsimo ognuno alla sua casa, ed io trovai la mia abbattuta da' fondamenti con morte di tutta la gente, che si trovava, che furono una sventurata mia sorella, una sua figlia ed una serva.

Non mancò però in tanta miseria la pietà cristiana in quei rimasti in vita ; poichè si diede ognuno con molta carità e pietosa sollecitudine a disotterrare quei che gridavano sotto le pietre. Era in vero un assai compassionevole caso, perchè mentre uno andava cercando il parente o l'amico per aiutarlo, s'udiva chiamare da sotto le pietre : O tu, qualunque sei, che per qui sopra cammini, muoviti a pietà della mia disgrazia; porgimi, deh, dammi ajuto in tanta necessità, che mi vedo morire senza soccorso alcuno. Ed era sì grande la compassione destata da queste lamentevoli grida, che lasciato il primiero intento, per cui uno andava, si fermava a disotterrare quello che era ivi sepolto. E quanti furono quelli che mentre stavano accinti a disotterrare uno, si sentivano chiamare da un altro poco discosto, cercando anche ajuto! Restavano sospesi e quasi insensati, non sapendo a chi prima si dovessero volgere a soccorrere. E frattanto quei miseri sepolti sotto quelle rovine tra atroci e aspri dolori se ne morivano. E molti che si disotterravano da loro stessi, pareva che allora risuscitassero ed uscissero dalla sepoltura, imbrattati di polvere, calcina e sangue.

Fu gran caso in vero che si trovarono delle persone che stettero sotterrate chi sette, chi quindici ore, e chi sino a due giorni, e uscirono vive e camparono; e dei figliuoli in fascia si trovarono vivi dopo due ed anche dopo tre giorni, e vissero. E non lascerò di dire, a questo proposito, un miracoloso avvenimento sortito ad un mio nipotino di due anni; ed è che essendo rovinata tutta la sua casa, nella quale era morto Giovanni Antonio Gallucci suo padre e uscitane la madre poco viva e tutta pesta dalle  pietre, gli sovrastava un monte di sassi fatto da quattro muri che erano ivi rovinati l'uno sopra l'altro di maniera che solamente la testa era fuori ; e chiaramente vedevasi il gran pericolo che sovrastava a tutti quelli che volevano accingersi a salvarlo, perchè non altro che solo una cassa si opponeva a quel monte ; sicchè niuno aveva ardire di rimuovere una pietra ; e il figliuolo vi stette così dalle sedici ore sino alle ventitrè del giorno ; nel qual tempo pregai Scipione Stella mio cognato di andare a vedere se poteva cavarlo da quel pericolo. Egli subito vi andò e trovò il figliuolo che stava chiamando la madre che gli desse il latte ; e veduto il pericolo si spaventò e si disanimò di poterlo ajutare ; ma pur coll'ajuto d'un altro uomo pietoso, puntellata la cassa alla meglio che si potè, con gran difficoltà e pericolo giunsero a disotterrarlo e a metterlo in salvo. Ma appena furono giunti in strada quel monte di pietre cadde tutto sopra il luogo, dove era prima il figliuolo ; e si conobbe assai bene che sin d'allora era stato tenuto miracolosamente in protezione dal suo Angelo Custode e da S. Giuseppe di cui teneva il nome. Potrei di simili casi raccontare molti altri, ma per brevità si tralasciano.

Molti perirono per non aver avuto presto il soccorso, e molti altri morirono subito ; ma assai ne ammazzò il secondo terremoto che venne di là ad un quarto d'ora, per cui restringendosi maggiormente i crepacci, molte mura crollarono.

Assai de' salvati, dopo aver soccorso alcuni, infervorati a dar ajuto ad altri, furono sorpresi dalle cadenti mura ed ammazzati ; tra i quali fu Francesco Zuccaro, che dopo aver con molta carità salvati alcuni, corse ancora per salvare una sua serva, che sotto un muro di sua casa stava morendo ; ma prima che giungesse a lei, quel muro rovinò e lo sbranò subito; ma pare che il Signore Iddio gli facesse grazia, giacchè potè dire i suoi peccati ad un Confessore che ivi si trovò a caso. Sicchè la serva non potè essere soccorsa, ed egli vi lasciò miseramente la vita. Ed un Ottavio Manuppelli, il quale, essendo da quelle rovine uscito illeso, e volendo con pietà cristiana ed amore maritale, andare a soccorrere la moglie ed i figli, che stavano, non potendone uscire, con grandissimo pericolo nella sua casa, appena giunto dentro, rovinò tutto; ed egli con la moglie e i figli, eccetto uno che si salvò rimanendo sconciamente ferito, si fece della propria casa sepoltura. Molti altri casi simili potrei dire, ma li lascio per non dare nella prolissità.

CattedraleDella Cattedrale cadde la Tribuna ed un bancato della nave vecchia, la cima del campanile e tutta quella parte di esso che era dentro la Chiesa ; e si fracassò la campana maggiore col cadere solamente nella prima lamia sotto alle campane, e dell'altra, mezzana, che cadde nella seconda lamia, si spezzarono solamente i manichi ; e due altre, che sbalzarono fuori nella strada cadendo sopra certi sassi, non si guastarono punto, e rimasero illese. Da queste rovine fu fracassato l'organo.

Chiesa di San SeverinoDella Chiesa di S. Severino cadde quasi tutto il tetto, che ne rimase solamente picciola parte sopra la Cappella di S. Carlo. Caddero tutte e due le mura verso il Cimitero, e vi rimasero oppressi tre preti che ivi dormivano al fresco : e due ne morirono, ed uno si salvò ferito in molte parti del corpo. Rovinarono le cime del campanile, in cui lo squillone si spezzò in più parti. La campana più grande si aprì in una parte ; le altre rimasero illese, e di quella dell'orologio, ancorchè cadesse fuori nella strada, si spezzarono solamente i manichi. Sopra questo campanile un chierico che ivi si trovò a dormire fu mezzo sotterrato dalle pietre nella seconda lamia, da dove benchè si udissero del misero le grida ed il cercare ajuto, non si potè soccorrerlo; perchè le rovine avevano serrata tutta la salita in maniera che non vi si poteva in modo alcuno salire ; e, per quanto si disse, fu udita la voce di quel disgraziato per due giorni.

Facciata Chiesa San NicolaDella Chiesa di S. Nicolò cadde tutto il tetto ed un muro laterale, e fu miracolo che la custodia nuova non fu toccata per niente. L'organo si fracassò tutto. Caddero due campane piccole, che erano nella cima del campanile, ma senza offensione, e la campana maggiore, con maraviglia di ognuno, restò bilanciata sopra un muro dell'istesso campanile senza lesione alcuna.

La Chiesa di S. Giovanni rimase in piedi, benchè in molti luoghi aperta dalla parte di dentro: ne cadde solamente una bancata del tetto sopra la porta maggiore. Dentro ivi rovinò la Cappella della S.ma Annunziata, sopra di cui era l'organo, il quale rimase senza danno alcuno sopra un solo piede, che l'altro restò in alto, in un modo così maraviglioso, che molti corsero a veder ciò come miracolo. Le statue della Cappella maggiore, di quella eccellenza di scul­tura, che si disse, vennero tutte a terra, e ancor che cadessero dall'alto più di quindici palmi, e fussero di legno e di quel sottilissimo lavoro, come si è narrato, non furono guaste nè toccate in cosa alcuna : miracolo in vero fu molto grande, che, di ragione, per la gran furia che portò il terremoto, e per l'altezza del luogo, onde caddero, dovevano fracassarsi tutte. Un angolo di pietra, il quale stava fuori sulla cima del muro sopra la porta maggiore, si spiccò dal suo luogo, sbalzò nel fosso fuori le mura della città cinquanta o sessanta passi lontano ; ed altrettanto lontano fu trovata la croce di ferro, che era sulla cima del muro sopra l'altare maggiore di essa Chiesa.

Del Monistero de' Celestini caddero tutti i dormitori, e quello del Noviziato da' fondamenti, e della Chiesa la tribuna, che colla sua rovina fracassò l'organo che vi era dentro. Rovinò anche il campanile, ma le campane rimasero intatte, eccetto che della maggiore si rupperò i manichi ; e non vi morì alcuno.

Del Monistero di S. Francesco rovinò la migliore maggior parte dei dormitorii, e il campanile si aprì tutto senza guastarsi niuna campana. Della Chiesa cadde tutto il tetto ; il coro, che ancora vi era, venne a terra unito colla tribuna. II rimanente della Chiesa, che era di mattoni, e gl'incastri rimasero in piedi.

Del Monistero di S. Agostino caddero tutti i dormitori e così il campanile, ma le campane non furono guaste; della Chiesa, che è tutta di mattoni; rovinò solamente il tetto. Non vi morì persona alcuna.

Del Monistero di S. Berardino, de' Zoccolanti, rovinò una gran parte de' dormitori, e specialmente di quelli verso la città. La Chiesa rimase in piedi, ma in molti luoghi guasta. Non vi fu altro danno, e non vi morì nessuno.

Il Monistero de' Cappuccini ricevè pochissimo danno, e quel di S. Rocco similmente.

Del Monistero de' Domenicani cadde tutta la Chiesa, e le stanze nuove di sopra, restando intatte le volte di sotto; e non poco furono danneggiate le stanze vecchie, senza però morirvi alcuno.

Il Monistero delle Monache ruinò tutto, e parte della Chiesa vecchia ; ma la nuova rimase intatta. Vi morì una monaca, e certe altre rimasero ferite. Le monache ricoverarono presso i loro parenti, e poi furono ripartite alcune in Foggia, altre in Lucera, altre in Troia ed altre in Napoli in due Monisteri, in quello di S. Chiara ed in quello di S. Sebastiano.

Cadde quasi da' fondamenti la Chiesa di S. Croce al Mercato, mille e novantadue anni dopo che fu edificata. Questa Chiesa, come innanzi si disse, fu la prima eretta da poichè la città prese la Santa Fede.

La Chiesetta della Pietà, nell' istesso luogo nominato, rimase intatta ; ma quella di S. Onofrio, ivi medesimo, con tutto l'ospedale de' Pellegrini rovinò da' fondamenti, nè vi rimase altro in piedi che una volta di mattoni sotto l'Ospedale.

Dell' Ospedale del Monte della Pietà caddero gli ospizii e l'infermeria, rimanendo salde le stanze sottane e buona parte di una volta sotto l'infermeria, ove era un trappeto per l'olio. Della Chiesa cadde tutta la facciata, e quasi tutto il tetto. Non vi morì però alcuno.

Della Chiesa delle Grazie caddero le volte che sostenevano il tetto, e tutto il muro verso la città.

Di S. Biase cadde poca cosa; e la Chiesa dell'Oliveto rimase intatta

Ruinaronsi le stanze tutte di sopra del Palagio del Signor Principe, e rimasero salve tutte la volte di sotto. Quel del Signor Mazzagrugni, dov'era il Governatore, rimase buona parte in piedi; ed il muro che sovrastava alle carceri, ancorchè minacciasse gran ruina, rimase in piedi per qualche tempo, in modo che i carcerati ne poterono uscire salvi. Quel di Giannotti ruinò quasi tutto, e quel degli Ortizj similmente ; che non rimase salva se non la facciata verso la piazza colle botteghe, e certe volte di sotto e vi morì la Signora Laura figliuola del Signor Capitano Marino Negri e moglie del Signor Lelio Nicastro. Quel del Signor Luca Torres, che fu già del suddetto Nicola Rosa ove albergò due volte il Re Ferdinando primo di Aragona, ruinò quasi da' fondamenti, ma non vi fu offenzione di persona alcuna.

Cadde buona parte del Palazzo di Donato Pazienza, ove abitava Monsignor Vescovo Venturi, dalle cui ruine si salvò miracolosamente esso e quasi tutta la famiglia, poichè non vi morì altro che il Segretario, che saltando da una finestra per salvarsi, fu atterrato dalla pietra di essa, ed uno staffiere; ed il Teologo si salvò malamente ferito.

Ruinò buona parte del Palazzo del Signor Antonio Negri, e specialmente una stanza terrena, che esso Signore teneva per li forastieri, e diporto degli amici, ove con onorati trattenimenti da molti galantuomini della città si passava il tempo, e specialmente in discorsi di belle lettere e nei piaceri della musica ; e fu miracolo che non vi perisse alcuno, poichè anche quando non vi era il Signor Antonio vi si soleva tenere conversazione. Nella ruina di questo palazzo non s'ebbe a deplorare la morte di persona alcuna, perchè il Padrone colla Signora Porzia Baccari si ritrovavano in Foggia in casa del Signor Berardino Belvedere, marito della Signora Angela Negri, sua sorella.

Ruinarono le case vescovili, ove abitava il Protonotario Don Giovanbattista Nottula Canonico Penitenziere, nelle cui ruine il misero sotterrato dalle pietre dentro al proprio letto, lasciò la vita; e se era presto il soccorso non moriva, giacchè per un'ora e mezzo fu udito gridare ajuto. E' fama che da mali uomini gli fusse stata accelerata la morte, per togliergli le monete, che avesse in casa. Costui fu un tempo Vicario Generale nella città di Venosa, e Vescovile, ed Apostolico; e in questa nostra città fu cinque anni Vicario Generale di Monsignor Vescovo Caputo, e alquanti mesi anche di Monsignor Vescovo Venturi. Era un uomo in molte cose liberale, e in molte tenace. Riceveva volentieri in casa personaggi grandi, e li spesava lautamente ; e così faceva molte altre volte cogli amici; ma poi nella sua morte non si sa che cosa si sia fatta delle sue facoltà, perchè non desiderò mai di tenere de' suoi in casa.

Lungo sarebbe descrivere, anche se volessi accennare, le altre ruine; ma posso dire che non fu casa o palagio o tempio nè piccolo nè grande, che non fusse tocco in tutto o in parte da sì crudele flagello.

Fatto con diligenza il numero de' morti, tra uomini, donne e fanciulli, si trovò esser stato ottocento in circa quello de' cittadini; senza il numero grande de' forastieri, de' quali non si potè avere contezza ; e questo numero sì poco di morti fu, perchè era il tempo dell'aria, che la maggior parte degli abitanti si ritrovava per la campagna.

Non lascerò di dire alcuni fatti, che si riferirono il giorno stesso del terremoto, però, come io ne sto a relazioni di altri, non posso accetarli per veri, nè crederli falsi, conciossiacchè niuna cosa possa giudicarsi non poter sortire, concorrendo la volontà di Dio ; e assai cose più maravigliose siano successe nel mondo.

Riferì il Signor Don Alessandro Malice, Dottore e Primicerio della Cattedrale, uomo dabbene e di credito, che egli ritrovandosi in casa nella sua camera, nell'udir che fece il terremoto, vedendo la gran ruina che portava, e considerando che poteva facilmente perire, s'inginocchiò mandando preghiere a Dio per l'ajuto del corpo, se poteva scampare, e dell'anima, se doveva in quel punto morire ; e mentre la casa dibattendosi dalla forza del terremoto in più parti s'apriva, in maniera che si vedeva il cielo, egli stando cogli occhi volti in alto vidde come un gran braccio che, sovrastando alla città in aria, le dava come uno schiaffo.

Una donna, sorella d'un prete, ritrovandosi poco prima del terremoto in una stanza sottana della sua casa, dove in un centimolo faceva macinare del grano, udì dalla strada uno che chiedeva l'elemosina, e fattasi alla porta vidde un pellegrino di aspetto venerando, vestito di bianco ; ed ella, facendo diligenza se aveva quadrini addosso per darglieli, e non trovandosene, disse che spettasse, che sarebbe andata sopra a prenderli, e quello rispose: Sei benedetta, figliuola ; non importa; e dando un sospiro soggiunse: Adesso caderanno tutte le graste dalle finestre di questa città. Ed ella intanto avida di dargli l'elemosina, corse sulla casa, ma all'uscire che fece dalla porta, non vidde più iI pellegrino, ed all'istesso punto giunse il terremoto. Graste si chiamano in Sansevero quelle teste che si tengono su i balconi per ornamento, ove si piantano de' fiori, ed erbe; e quel pellegrino, o spirito che fusse, annunciatore di tanta rovina, volle usare il vocabolo del paese, per farsi intendere dalla donna. La quale poi rimasta viva sotto le ruine di sua casa, subbito che vidde tale ruina s'avvidde che quel pellegrino le aveva annunciato e predetto il futuro terremoto; ed all'istesso tempo io riferì con altre persone scampate.

Epigrafe commemorativa

Poi seguitò il terremoto, e tutti gli scampati si davano ad uscir fuori. Una buona parte si era riparata in uno degli orti che sono attorno alla città, ove era un picciolo tugurio per uso degli ortolani. Andando alcune donne intorno di esso ne uscì un cane che latrando correva contro di esse per morderle, quando. s'accorsero che teneva due cagnolini dentro il tugurio, e credendo la cagna figliata, dissero al padrone che l'avesse tolta di là, perchè avrebbe potuto fare alcun danno, e specialmente a' figliuoli, che potevano passarvi. Colui rispose non tener cagna figliata, ma che quello era un solo cane ; e replicando le donne che quella era una cagna figliata, egli andò a vederlo, ed il cane si avventò verso di lui per morderlo; ed egli vidde che era il suo cane che guardava que' due cagnolini, come sogliono fare le cagne figliate, e se li metteva sopra lambendoli; e non essendovi altra cagna venne in cognizione cogli altri, che quel cagno maschio aveva partorito prodigiosamente due cagnolini

Seguitando poi le scosse del terremoto, tutti li cittadini salvati erano usciti fuori delle mura; e prima che giungesse la notte, si trovarono tutti negli orti attorno alla città, chi sotto tende fatte con panni, come meglio si potè in que' momenti, e chi a cielo scoperto non avendo mezzo alcuno per potersi riparare. S'incominciò a dubitare che avessero a mancare le cose necessarie al vitto, perchè pareva non esservi pane nè vino nè altro. Ma il Signore Iddio cominciò a mostrare la sua pietà, poichè essendo rovinata ogni cosa, fu pure miracolo grande che non mancò a niuna persona pane, vino, ed ogni altra cosa necessaria, e seguì poi un'abbondanza grande di tutte le cose.

La mattina seguente, continuando tuttavia con veemenza le scosse del terremoto, non ardiva alcuno entrare nella Città per ricuperare le robbe sotterrate in quelle ruine ; e dubitandosi se si poteva riedificare la città disfatta e facendosi su di ciò discorso fu il parere comune che se il terremoto non aveva guastato i fondamenti s'avrebbe (sebbene con difficoltà) potuto riedificare per la tollerabile spesa, che vi sarebbe corsa; ma se quelli erano guasti era impossibile a riedificarsi più, senza grandissimi ajuti, per essere rimasti i cittadini non atti a portare il peso di tanto dispendio. Nulla .di meno poi molti, dissotterrate le loro robbe, non avendo l'occhio all'ajuto divino, fra pochi giorni se ne andarono per le terre convicine, non solo per riposarsi, ma per farvi perpetua abitazione. Ma la maggior parte con più maturo consiglio, mossi dall'amore della patria, per non abbandonare un tale felice sito e quelle disfatte mura ove erano nati, e cresciuti, ed anche per non lasciare sì belle, ed utili possessioni della campagna, si diedero a fare capanne di tavole per quegli orti, ove più comodo li pareva ; ma fu pur cosa degna di considerazione, che ognuno cercò di farsi la sua abitazione in quella contrada donde poteva riguardare l'aria di sua casa. A questo li spinse la speranza di poter pure un giorno, se non col terreno, col divino ajuto, riedificare le loro case, e di ritornare ad abitare la già distrutta, e rovinata patria. Ve li spinsero anche gli ordini dell'Eccellentissimo Principe Gianfrancesco figliuolo di Paolo, il quale prometteva fortissimi ajuti per la riedificazione della città; ed acciò anche i poveri avessero potuto farsi le abitazioni, comandò che da chiunque volesse si fussero pigliati indifferentemente del suo Palazzo eziandio tavole. Ma da quest'ordine, abbenchè fusse mosso da buon zelo, successe un disordine sì grande che non si può immaginare, perchè si fece sì licenzioso ognuno che gli parve anche lecito di pigliar altre robbe, e di prezzo, e fu tale e così sollecito il saccheggio che non pochi, del proprio padroni, rimasero privi di mezzi di potersi rifare l'abitazione, ritrovandosi le loro case tutte saccheggiate ; e giunse a tale questa empietà che non potevano lasciarsi nemmeno un quarto d'ora le case sole; e fuvvi anche chi si fe' lecito di disotterrare i cadaveri, e di spogliarli di quel poco di bene che avevano sopra; lasciandoli poi così nudi con empietà indicibile.

Epigrafe commemorativa

Circa i corpi morti diessi ordine con pietà cristiana di portarli alle seppolture ; ma perchè di queste poche erano rimaste scoverte, s'empirono subito; e molti cadaveri puzzolenti furono bruciati, e le ceneri poi portate ne' luoghi sagri. Si bruciarono tutti gli animali morti con celerità grande, e con questo si andò riparando alla pestilenza che potevano causare que' putridi cadaveri.

Mostrò il Signore Iddio tanta clemenza e misericordia agli scampati, che in vero fu miracolo inudito che di tutti li feriti non morirono più di otto o dieci ; e gli altri in numero grande, specialmente de' feriti malamente in testa, benchè se ne stessero allo scoverto, al sole, e sereno, a' venti, e piogge, fra pochi giorni si sanarono, e quello che ingrandì maggiormente il miracolo, senza ajuto di medici nè di medicina alcuna; ed alcuni che andarono, come si disse, fuori in altri luoghi, ed ebbero la comodità de' medici, e medicine, tardarono assai tempo a ricuperare la salute, ed alcuni ne morirono.

Ma alla madre del chierico che morì sul campanile della Chiesa di S. Severino, come si disse; sortì miracolo assai maggiore. Costei ritrovandosi con una ferita di considerazione in testa, quando sentì che il figlio per mancanza di ajuto se ne era morto sul campanile, sorpresa dal dolore, e mossa dalla disperazione, non solo per morire si squarciò la ferita, e l'aperse maggiormente, ma eziandio vi pose dell'acqua, ed altre cose offensive, e contrarie, per inasprirla, e nulla di meno, quando pensava che fra breve sarebbe passata all'altra vita, senz'altro medicamento si trovò sana, e salva ; e perchè ella era buona cristiana, avvedutasi dell'errore e che ben altra era la volontà di Dio, lo ringraziò della grazia, ed attese a far bene per l'anima del figlio. E questo io ho più volte inteso dalla bocca propria dell'istessa donna.

A queste, ed altre grazie, come di una raccolta fertilissima di grano, orzo e d'ogni sorta di legumi, ed appresso di vino e d'olio, soggiunse il Signore Iddio un' altra grazia grande, e si fu che fra lo spazio di quattro o cinque mesi dopo il terremoto, vi fu più di dugentocinquanta ma trimonj di povere vergini, e donne abbandonate per la morte de' loro parenti ; e benchè si trovassero senza ajuto umano, e senza dote, quelli uomini che le presero in mogli rimasero tutti soddisfatti, e contenti, come se avessero prese Reine e tesori per dote. Quindi si venne in buona cognizione, e considerazione, che il Signor Iddio con la potenza della sua misericordia aveva determinato che si rifacesse la città distrutta, e riempissesi di nuovi abitanti quanto prima, e da tutti fu ringraziato pienamente. Avvenne poi del terremoto, fra le grazie raccontate e molte altre, quali si lasciano per brevità, questi infelici avvenimenti, forse per esprimere il Signore Iddio la superbia che poteva nascere in noi per tanti divini favori. Nove giorni dopo il terremoto, maggiormente (ancorchè si rinnovasse dieci volte in circa al giorno e notte con spavento indicibile, dubitandosi di nuovi mali) si fe' la notte del sabato vegnente la domenica sentire un terremoto veemente e grande, che fu poco dissimile dal primo. E benchè si stesse in campagna, si ebbe un timore grandissimo, non meno che nello stesso primo terremoto. Questa scossa finì di rovinare la Serra Capriola, come si dirà a suo tempo.

Continuavano i terremoti, così spesso, ora piccoli, ora grandi, sempre accompagnati da muggiti, con universal spavento, che ognuno si pronosticava più tosto la morte che la vita, quando a' trenta di agosto, finito il mese intero dal primo terremoto, poi molti terremoti che s'udirono quel giorno, verso le ore ventuno si mosse un grandissimo temporale con potenti lampeggi, che parevano i tuoni e le saette cadenti ed i lampi infocati volessero rovinare il mondo.

Pria giungesse in San Severo questa portentosa procella si vedeva avanti una densa nube, in cui pareva si movessero molti serpi di fuoco tant'erano i lampi, e i tuoni parevano che conducessero un'esalazione infuocata a guisa di lancia che teneva la punta verso il cielo e il calce verso la terra, nè differiva cosa alcuna dalla forma di una lancia, ma di grande spazio larga lunga. Giunse questa spaventosa procella in San Severo con tanti grandi spessi lampi, e grossi tuoni, e saette, che andavano cadendo di passo in passo, che ognuno raccomandandosi a Dio credeva in quel punto morire. Una di queste saette ferì nella persona il Reverendissimo D. Luigi Ferrara Arciprete della Cattedrale, che stava nella sua casuccia di legno, che noi con nuovo vocabolo chiamiamo baracca, il quale di subito morì. Fu la saetta di quella specie che gli Astrologi chiamano turbine, che brucia l'interiore e non l'esteriore, e !ascia il misero a chi tale sventura, nel modo che si ritrova, e resta leggiero il cadavere come una piuma. Questo inopinato ed acerbo caso finì di riempire i petti de' restanti di spavento e timore.

A' sei di settembre seguì un'altra gran tempesta con grossissimi grandini, che, come riferì un contadino, in Sane Antonio feudo del Signor Principe, erano caduti di estrema grandezza, e più di mezzo rotolo l'uno la quale tempesta guastò alcune parti delle vigne della città.

Verso le ventidue ore poi venne un terremoto forte poco meno del primo, per lo quale si dubitò dovesse abissare il tutto, perchè i crolli furono spaventosissimi e finirono di rovinare più di sessanta case che erano rimaste mezzo in piedi. E questo fu assai più terribile nella parte bassa della città, ove fu maggiore fracasso. Molti, uomini e donne, con pianti ed urli corsero verso la città disfatta per vedere ognuno i suoi che erano ivi dentro a disotterrare le robbe ; ma non vi morì niuno per grazia di Dio.

Erano così spessi i terremoti che non si poteva stare un'ora senza grande spavento, e dico bene che rinovarono fra sei mesi più di mille volte.

E se portò a' Romani terrore quel terremoto che, come si disse, a tempo di Annibale sortì al principio della giornata del Trasimeno, e che rinovò, come disse Tommaso Tommasi, fra un anno trecento volte, e come vuole Plinio al citato libro cinquantasette volte, quanto maggiore terrore doveva dare, come in effetto dava questo.

A' ventotto di ottobre, giorno de' Santi Apostoli Simone e Giuda, due ore avanti giorno si mosse un'altra grandissima procella con venti, tuoni, lampi e saette, che pareva ardesse il mondo intero. Al rischiararsi dell'alba, che ancora fieramente durava, stando un povero uomo con sua moglie e famiglia in letto, mentre si alzava per vestirsi nella sua abitazione, ch'era un tugurio che noi con vocabolo paesano chiamiamo pagliaja, cadde una saetta sopra il suo letto che di subito ammazzò il povero uomo, senza toccare nè la moglie nè i figli e nemmeno il letto ; e non bruciò il tugurio ; ma, passando da questo ad altro tugurio vicino, , ammazzò due cavalli dell'infelice uomo morto che erano ivi dentro. Cosa in vero di gran pietà, e spavento insieme.

Seguitavano, come si è detto, i terremoti, in maniera che se si nominavano subito giungevano, come fossero stati chiamati a voce, quando a' venti di gennaro dell'intrante anno 1628 a tre ore di notte si eclissò la luna, e cominciò la sua oscurazione da verso oriente, e si coverse tutta con grande oscurità, e poi si vidde tutta sanguinosa con mirabile stupore e spavento di chi la mirava, e durò questa eclisse più di sei ora dal principio sino alla fine della dischiarazione, la quale cominciò verso settentrione. Per un'edisse così grande e spaventosa, ognuno giudicava dover nella primavera rinnovarsi i terremoti assai più crudeli e pertinaci del primo, e de passati ma sebbene nella primavera furono, non furono gagliardi però.

A' tredici di maggio, che fu di sabato, a ventidue ore, a cielo chiaro e sereno si viddero verso ponente due soli in Puglia, e specialmente in San Severo, che calarono insieme all'occaso ; e comechè questi segni sogliono portare perniciosi avvenimenti, ognuno tremava e pregava il Signore Iddio che lo sottraesse da nuovi pericoli.

Agli undici di luglio venendo io da Lucera verso la sera, che era un cielo serenissimo, viddi il sole che se ne andava verso l'occaso carico di vapori rubicondi che l'offuscavano siffattamente da potervi fissare gli occhi senza offensione della vista; e poi viddi sopra il Monte S. Angelo verso la valle di Stignano due nere nubi piramidali che con le punte rivolte verso la terra e le basi verso il cielo se ne andavano verso settentrione l'una dietro l'altra lentamente, benchè non spirasse vento alcuno; per lo che, avendo io fatto alquanto studio de' terremoti, predissi che certamente, per questi segni, doveva prodursi un pericoloso terremoto; e, la sera, giunto nella mia baracca, dissi con la gente di casa che la notte o il giorno seguente doveva essere un gran terremoto.

Nulla di meno, sperando più presto di no che di sì, andammo a letto. Ma due ore avanti giorno, venendo le dodici ore, si sentì un terremoto tanto veemente e grande che, risvegliate, le genti uscirono tutte fuori dalle baracche, dubitandosi non essere sicure in esse. Io mi ritrovai risvegliato e sopra pensiero, e da che sentii incominciare con crolli spaventosissimi dissi più di quindici volte Gesù, e seguendo la volontà degli altri, mi buttai dal letto e corsi fuori della baracca che, scuotendosi da ogni parte, dava segno di rovinare ; e, non appena uscito, il terremoto cessò. Diede tanto maggiore spavento questo terremoto che da tutti si credette che maggiori ruine avrebbe recato se fossero rimasti nella Città ; anzi molti dicevano e credevano dovesse la città divenire lago di acqua, e però non si dovesse irritare la Maestà di Dio in far dimora più in quel luogo, che la Maestà non voleva che più si abitasse, e molti erano in pensiero di partirsi non ostante che tutti quelli che senza maturo consiglio erano andati ad abitare altrove, come si disse, se ne erano ritirati in Patria, e si avevano edificate le loro baracche, come gli altri. Il timore di questi era più grande, che ognuno si dava a credere per certo dover succedere così, essendo venuto questo terremoto sì spaventevole alla fine dell'anno, e tutti vivevano con timore indicibile, aspettando più tosto la morte che la vita.

Non mi par lasciare di dire come in sino a capo dell'anno perchè gli altri sei mesi non fu così spesso, rinnovò in tutto il terremoto, con le già dette, da più che millecinquecento volte. E perchè i miei molti affari mi hanno continuamente tenuto impedito, non ha potuto questa relazione prima uscire alla luce del mondo ed al cospetto degli uomini, e sono trascorso fin qui.

Mi pare anche di dire che questo terremoto non si è, quietato se prima non sono già finiti tre anni, ora facendosi udire con crolli spaventosi, ora mediocri, ed ora piccoli, sempre accompagnato da' soliti muggiti e suoni, e talora si è udito il muggito e il suono senza tremare; ma comechè s'andò sempre rimettendo, non si udì tanto spesso poi de primi anni, nei quali due ultimi non credo si rinnovasse dugento volte. E benchè da molti filosofi si dice che il terremoto possi continuare tre anni, io non ho ritrovato in niuno autore scritto che alcun tempo nè alcun luogo sia durato per questo tempo, come l'abbiamo noi con esperienza veduto ed udito ; sicchè si è confermata questa sentenza in queste mirabili parti.

Plinio e tutti gli altri che scrivono de' terremoti, con chiudono che non può fare se non nasce il sereno e a tempo quieto e sereno e tranquillo, e qui si è pur veduto coll'esperienza che sono stati a tempo nuvoloso, a tempo di tempesta, e a tempo di pioggia. Vuole il Sassano che Flante spirita desuper possit terremotus sublus, si i pori della terra aperti in alcun luogo, entrano per quelli nelle sue viscere, e volendo uscir poi per altre parti, ove sono i pori chiusi, non potendo, causano il terremoto ; ovvero, movendosi i venti dell'esalazione che si muove dalla superficie della terra, non possono impedire quelle esalazioni, che si trovavo incontrate nelle viscere di essa, che non trovando l'esito con loro impeto le diano il moto, e facciano tremare. Abbiamo noi praticata questa filosofia con l'esperienza, poichè molte volte, che soffiano venti gagliardissimi o australi o settentrionali ch'eglino si fussero, si è udito il terremoto, ed assai volte molto veemente; inoltre si è inteso a tutte le ore, la sera, la notte, avanti il mattudino, a mezzogiorno, a vespero, ed anche in tutti i tempi, di primavera, d'està, d'autunno ed inverno.

Vuoi Plinio, la cui opinione abbracciano tutti gli altri, che appresso al tremuoto suole avvenire alcun'altro pernicioso caso, come di peste, di mutazione di stato, ed altro; e soggiunge, come disse, che non tremò Roma che non li fusse cagione di maggiore evento. E qui per grazia del Signore Iddio fin'ora non si è conosciuta cosa avversa, fuorchè quelle poche narrate, sebbene una cosa di danno è accaduta, che per cinque anni continui hanno dato il guasto a' seminati di ogni sorte in tutta la Puglia i sorci. Però questa tribulazione principiò dall'anno 1625 prima del terremoto,-continuarono poi spessi in più gran numero che se non si fusse usata diligenza molto esatta in farli prendere non si sarebbe raccolta cosa alcuna nelle campagne, e sarebbe seguita grandissima carestia, non essendo solito durare questa maledizione più di tre anni, ma il primo e l'ultimo anno non sogliono fare molto danno.

Vogliono alcuni moderni filosofi che questa numerosa prole de' sorci sia stata causata dall'istesso terremoto, giacchè si è mantenuta anche dopo i tre anni e in maggior numero. E il Signor Jacopo Castaldi, gentiluomo per le sue virtuose azioni di molto merito, e per lettere eccellentissimo filosofo, e medico di questa città, concorrendo nell'istessa opinione dice che la produzione di tanta quantità di sorci sia cagionata dall'esalazione velenosa che, pe' molti terremoti, è andata continuamente esalando dalle viscere della terra, la quale avendo corrotta essa terra vicino alla superficie vi è insorta questa perniciosa generazione ; e che ciò sia stata la potentissima causa di togliere a noi la peste che avrebbe causata, se non se ne rimaneva in terra, e si fusse alzata, e co' suoi veleni avesse infettata e corrotta l'aria, come in altre occasioni simili è sortito.

La peste in cittàNon mancò il veleno delle pestifere in quel tempo del terremoto ad aggiungere afflizione agli afflitti, poichè si diedero a pubblicare che queste terre rovinate dal terremoto, e specialmente questa città di San Severo, avessero ricevuto per i gravi peccati de' loro cittadini un tal gastigo dall'Onnipotente e giusta mano di Dio ; e furono eziandio di quelli che presero piacere e gusto dell'altrui sventura. Oh! diaboliche menti che misuravano colle loro coscienze quelle degli altri, e forse meritavano esse un simile gastigo non solo, ma un assai più acerbo, non solo dalla mano del Signore Iddio, ma da tutti gli spiriti infernali, quando dovevano aver pietà e misericordia delle ruine del prossimo, tunc irridebant cum clamabant euge, effetti di uomini fieri e di veri istrioni. Però mi par di dire a favore di queste misere terre per confondere le perverse opinioni di questi empj maldicenti, quel che disse Pietro Matteo del terremoto di Ferrara, che di esso non se ne diede la colpa a' vizj e a' costumi corrotti della città, per cui si provocasse la giustizia di Dio, ma alle naturali esalazioni che sogliono causare il terremoto ed alla situazione de' luoghi atti a ricevere esse esalazioni ; e però, mentre il terremoto, effetto naturale, ha tante volte successo con maggior ruina in altri luoghi, così si può tenere anche questo essere stato effetto naturale : non dico però che noi non siam peccatori, perchè, come disse Giovanni Evangelista nell'Epistola prima, inganneremmo noi stessi e non diressimo la verità. Ma se il Signore Iddio punir volesse i peccatori del mondo colla forza grande della sua giustizia, non vi resterebbe nè città nè terre nè castelli all'impiedi. Quando sua divina Maestà vuoi gastigare con questa sferza ad esempio degli altri vi lascia i segni perpetui, come nel diluvio generale, secondo dice la Genesi Delevit universam carnem, e vi lasciò per segno l'arca di Noè, che ancora si vede sopra i monti d'Armenia, come vuole Pier Francesco Giambullari Fiorentino nel Gello; come nelle cinque città di Pentapoli, che dopo averle estinte col fuoco, vi fe' sorgere un lago di acqua bituminosa, che ancora persiste. La città di Nivine fu cambiata in un deserto ed è divenuta abitazione di bestie selvagge; e si vede ancora il luogo del Mar Rosso, ove Faraone fu sommerso con tutti i suoi, la quale istoria si legge e si leggerà, finchè sarà il mondo, nel libro dell'Esodo di Moisè al capo 14. Gerusalemme fu distrutta da' Romani con mortalità di seicentomila persone, come vuole Giuseppe Ebreo nelle storie De bello judaico, e Iddio non permise che fusse riedificata nell'istesso luogo. Nell'Ischia, allora Pitecusa, fu un terremoto che fe' rovinare una terra, e poco appresso per un altro vi fe' insorgere un lago che ancora si vede. La città di Pompei fe' inghiottire dalla terra con tutti gli abitanti. L'isole di Jeramina e Jeraja che in un subito con un terremoto fe' coprire dal mare, che mai più si viddero con tutti i loro patrioti. La terra del Rierche fe' sotterrar da un monte con i suoi abitatori, e tante altre che lascio per brevità. Ora se il Signor Iddio per i vizj e peccati avesse voluto gastigare questa città e le terre all'intorno facendole ruinare dal terremoto, non avrebbe permesso che fussero più riedificàte e che tanti cittadini e patrioti rifacessero le loro case, ma tutte te avrebbe lasciate desolate e distrutte. Ma per grazia divina alcune ne sono ridotte ed altre si vanno riducendo a buon termine. Da nessuno pertanto si può dire con verità che tale ruina sia stato un gastigo per i peccati, perchè judicia Dei abissus multa ; ma bensì si può tenere e credere che ciò fusse stato per effetto di miglior causa, per indurre questi popoli a perfezione maggiore con quella sentenza di S. Paolo : Quos amo corrigo et castigo, e quell'altra del Regio Profeta Davide nel salmo 50, dove ragiona del terremoto : dedisti significationem timentibus te, ut fugiont a facie arcus. Il che si accetta maggiormente per i tanti favori che sono venuti dalla sua Santa Mano, perchè Aperi manum tuam, dice lo stesso Profeta, et imple omne animai benedictione, lo che vuoi dire che quando il Signore Dio apre la mano a far delle sue grazie e favori, dà anche la sua benedizione, ch'è segno dello stare in sua grazia e però non lascerò di dire di una grazia grande ottenuta dalla 'sua onnipotente mano l'anno addietro 1629, che a' sette maggio, fuor d'ogni credere e fuor d'ogni opportuno tempo con una brina, che noi chiamiamo gelata, si guastarono affatto tutte le vigne di Lucera, di Foggia, di Torremaggiore, di S. Paolo, di Apricena, di S. Marco in Lamis, e di altre terre; e quelle di San Severo, ancorchè vi fusse stata una brina tanto grande che pareva una neve, rimasero col favore Divino intatte senza offensione alcuna; e ben si conobbe il miracolo evidente in benificio di questa sola città, ove si fe' un'ammirabile ricolta di vino, che si vendè poi a gran prezzo nelle suddette città e terre. Lo che fu di grandissima comodità a' cittadini rimasti per edificarsi le case, e pochi furono quelli che non , ebbero questo beneficio.

Mosse anche il Signor Iddio, per giovamento di queste terre distrutte, e con l'ajuto de' Signori e Principi di esse, e sopratutto del Signor nostro Principe, la mente dell'Eccellentissimo Vicerè di Napoli, non facendosi pagare tributi per dieci anni e concedendo muratorie a' particolari per debiti prima del terremoto sino a suo nuovo ordine; che ha giovato e gioverà non poco.

Da ciò possono meglio giudicare e confondersi le pestifere lingue che hanno sparlato, e forse sparlano, e vedere se quello che ci ha danneggiato sia stato, conforme al loro falso giudizio, dato dall' onnipotente Iddio per gastigo de' peccati. Il qual io prego con tutto il cuore a degnarsi di tenerci la sua Santa Mano sopra, per forza di star vigilanti per camminare a maggior perfezione: quia nesciamus diem neque horam, ed anche a fine che il demonio finissimo ladro di nostre anime ci trovi sempre armati dell'adamantine armi della Luce Divina; dal cui sblendore restino fugate le tenebre; e noi, maggiormente rischiarati, possiamo, cinti dall'istessa luce, ascendere a quell'eterna luce dell'Empiro, a godere a faccia a faccia del vero ed onnipotente Dio l'immensissima e gloriosissima essenza; lo che ci conceda per sua misericordia e grazia.

Amen.

I campanili di San Severo