La cella è paradiso
  Il buon padre Matteo era "amicissimo" della solitudine e "sfuggiva al possibile" il conversare coi secolari; usciva dal convento, solo se costretto da qualche bisogno di carità fraterna; spendeva quasi tutte le ore del giorno e la miglior parte di quelle della notte, o nel coro meditando e orando; o nella cella, scrivendo e studiando. Esagerava "con gran sentimento" ciò che dicono comunemente i maestri della vita spirituale: come il pesce fuor dell'acqua, privo del suo nativo elemento, perde il respiro e muore; così il religioso, che senza grave necessità esce dal convento, resta esposto al combattimento dei sensi, agli allettamenti del mondo e corre manifesto pericolo di cadere in colpe mortali e di morire alla grazia divina.
  "Io quanto a me - diceva di se stesso padre Matteo - non vorrei mai aver a mettere il piede fuori della cella, che per andare al coro e per accostarmi al sacro altare. Nella cella ritrovo ogni maggior delizia; nella cella vivo contento e consolato; nella cella ho riposto ogni più ricco tesoro; nella cella godo un paradiso in terra; onde del secolo nulla o poco mi curo, e pongo in non cale tutte le cose più amabili di questo mondo".
  Nella cella padre Matteo vi godeva ogni delizia e vi ritrovava ogni tesoro, perché "oltre lo studiolo pieno di libri dottrinali e spirituali", vi aveva aggiustato "un oratorietto con due devotissime immagini, l'una di Cristo crocifisso e l'altra della santissima Vergine, avanti alla quale orando, replicava sovente con detto di sant'Agostino: hinc lactor ab ubere, hinc pascor a vulnere; positus in medio, quo me vertam nescio: da una parte le dolcezze di Maria, dall'altra le piaghe sanguinanti del Signore; posto tra questi due amori, mi trovo nell'imbarazzo della prima invocazione. Vi teneva ancora alcune figurine di Santi suoi devoti, le vite dei quali meditava frequentemente per imitare le loro gloriose azioni e fra mezzo di esse si vedevano scritti in caratteri assai grandi vari motti ricavati dalla Sacra Scrittura, che gli servivano di "fiammelle", con le quali si accendeva nell'amore divino; ed in un canto si leggeva quel detto dei discepoli del Salvatore: "Nonne cor nostrum ardens erat in nobis?: non ci ardeva forse il cuore nel petto?" (Luc 24,32); in un altro canto si leggeva quello del Genesi, ove parlandosi del patriarca Giacobbe, si dice che: "videbantur illi dies pauci prae amoris magnitudine: gli sembravano pochi giorni tanto era il suo amore" (Gn 29,20).
  Fra altri motti sentenziosi, appesi alle pareti, uno era questo: "Ora, primos impetus reprime; sustine et tace, si vis vivere in pace: prega, non essere impulsivo; sopporta e taci se vuoi vivere in pace"; nella pratica del quale, esercitandosi continuamente, non è meraviglia che orando e tenendo in briglia i movimenti disordinati dell'animo, tollerando con pazienza le cose avverse ed osservando rigoroso silenzio, a padre Matteo la cella sembrasse "il deposito di tutti i suoi tesori" e vi godesse una pace così tranquilla che "andasse in qualche maniera del pari con quella di cui fruiscono i Beati nel Paradiso" (o.c., nn.73,74).

 

Sempre faccia gioviale
  Conqueste fiamme di carità verso Dio ed il prossimo, accese nell'anima, padre Matteo non solo sopportava pazientemente ogni avversità e travaglio, "immobile a tutte le scosse dei sinistri avvenimenti", ma ne sentiva ancora sommo piacere.
  Padre Matteo, perciò, aveva "sempre la faccia gioviale ed allegra, ma con un misto di tal venustà e decoro che eccitava negli animi di quelli che li guardavano, riverenza e divozione verso di sua persona".
  Essendo guardiano e lettore (cioè insegnante) nel convento di Serra, padre Matteo aveva un buon numero di studenti, a ciascuno dei quali toccava per ordine di lavare una settimana i vasi della cucina. Uno di essi, mentre attendeva una mattina a tal funzione, "lasciatosi venire qualche rincrescimento", si diede a mormorare con voce alta del guardiano padre Matteo, il quale entrato per certa faccenda in cucina, udì la mormorazione distintamente, senza che il giovane se ne accorgesse.
  Convenuta la famiglia a suo tempo in refettorio per il pranzo, dicendo lo studente sua colpa, il padre guardiano gli ordinò di raccontare pubblicamente le doglianze che nel lavare le scodelle aveva fatte contro di lui. Restò il misero a questo comando confuso e timoroso di una salutare penitenza. Invece si sentì dire dal guardiano padre Matteo: "Figliuol mio, vi benedico e vi ringrazio dell'occasione che mi avete dato di meritare. Se per l'addietro vi ho amato, vi amerò più cordialmente per l'avvenire". E senza dargli alcuna penitenza, lo fece andare a mensa e di più gli regalò la sua pietanza (o.c.,nn.75,76).
  A padre Matteo fu indirizzata una lettera risentita, da uno che, ingannato da falsa apprensione, si stimava grandemente offeso dal di lui zelo "troppo severo". La lesse il servo di Cristo "con tanta mansuetudine di spirito", che non solo non sentì tanto movimento di sdegno, ma "giubilando nell'interno del cuore e nell'esterno del volto", ritornò a leggerla, la baciò e, sollevati gli occhi al Cielo: "Signor mio - disse - vi rendo affettuosamente grazie dell'avermi voi presentata così bella occasione di mortificare la mia superbia e di fare acquisto, se saprò prevalermene, di qualche corona di merito: il tutto sia a gloria vostra e a salute dell'anima mia. Sento bensì dispiacere che questa persona si sia lasciata ingannare dal demonio nell'appigliarsi al falso. Io dal mio canto la perdono di cuore. Degnatevi altresì voi, che siete pietossissimo, d'averle pietà e di renderle bene per il male".
  Padre Matteo non volle bruciare e né stracciare la carta, ma se la conservò dentro la borsetta della Regola; ed ogni volta che gli occorreva di pigliar questa nelle mani, dava un'occhiata a quella ancora, la baciava e se la metteva nella manica dalla parte del cuore; "sì che possiam dire stimasse gemme preziose le ingiurie, che vi erano dentro; dobbiamo credere pregasse affettuosamente la Maestà divina per chi gliel'aveva scritta, come se gli avesse fatto un segnalato favore" (o.c.,n.76).

continua