Nella sua provincia nativa
  Poiché le sorelle di fra Matteo bramavano d'averlo più da vicino per potersi avvalere con maggior facilità dei consigli di lui, e consolarsi talvolta con la sua presenza, ottennero al fratello dai superiori maggiore l'obbedienza di andar a trattenersi di stanza nella sua provincia nativa di Sant'Angelo, ove fu trasferito che non aveva compiuto ancora un anno intero dopo la professione.
 Il padre Silvestro da Rossano, provinciale, volendo far prova del fervore e valore del giovane fra Matteo in materia di sapere, avendo sentito parlare di lui con molta lode, gl'impose che insegnasse logica privatamente nel convento di Serracapriola ad alcuni chierici giovani.
 Non è così facile riferire con quanta umiltà ricusasse egli di accettare tale carica, accusandosi di essere ignorante e del tutto inabile ad essere maestro; ma era lui, invece, bisognoso di imparare anziché adatto ad insegnare.
 Costretto dalla forza dell'obbedienza, alla quale non poteva contraddire, abbracciando l'impresa, fra Matteo cominciò a leggere - cioè ad insegnare - con tanta chiarezza e grazia di comunicativa, che restandone "sopra modo soddisfatti" i padri della provincia, non solo lo dichiararono studente di teologia, ma gli ottennero ancora l'obbedienza da Roma, perché potesse passare a studiarla a Bologna, sotto il magistero del padre fra Giovanni da Rimini, lettor generale e soggetto di singolarissime prerogative (o.c.,n.64).

 

Il migliore d'ogni altro
 Fra Matteo, attendendo allo studio della sacra teologia, era un modello esemplare a tutti i suoi condiscepoli: modestia religiosa, integrità nei costumi, ritiratezza nel vivere, santità nel conversare. Spiccava tanto fra gli altri "nella perspicacità della mente, nella vivacità dell'ingegno, nella fecondità della memoria, nella facilità e felicità dell'apprendere, e nell'eminenza della dottrina", che veniva preconizzato dal suo lettore - cioè insegnante - "fra i migliori, e per il migliore d'ogni altro".
 Fra Matteo, per conto suo, si reputava il "men saputo, anzi il più ignorante, e fra tutti il più manchevole ed imperfetto". Ma quanta fosse accetta al Signore la sua umiltà e quanto odiosa al demonio, si vede manifestamente dal seguente caso.
 Una donna di Castel Bolognese, spiritata da tredici anni. tormentata più fieramente del solito, fu condotta a Bologna per essere esorcizzata in varie chiese e finalmente nella nostra dei Cappuccini.
 L'esorcista cominciò a scongiurarla alla presenza di molti frati, i quali aiutavano tal funzione con le loro orazioni. Dopo gagliarda resistenza, fatta dal demonio agli esorcismi, si diede a gridare per bocca dell'offesa: "Fate quanto volete, che non uscirò mai da costei se non viene a discacciarmi fra Matteo d'Agnone, l'umiltà del quale mi è insopportabile tormento".
  Stava all'ora il Servo di Cristo nella cella studiando e, sentendosi chiamare nella chiesa per tal effetto, sopramodo confuso, ricusava d'andarvi. Ma perché i frati mossi da carità per il desiderio che avevano di vedere libera quella meschina dall'oppressione del diavolo, gli facevano forza.
 Il povero frate Matteo, prostrato a terra, diceva che il demonio era bugiardo, e che non per altro desiderava la sua presenza, per burlarsi di lui, e per manifestare pubblicamente i suoi peccati. Costretto dal superiore e da merito di santa obbedienza a calar nell achiesa, fra Matteo, entrato nella cappella dell'altar maggiore, pieno di confusione si gittò con la faccia per terra avanti il Santissimo Sacramento, sotto gli occhi dell'indemoniata. E subito il diavolo alzò la voce, gridando orribilmente: "Ecco il mio carnefice, ecco il tormentatore, colui che mi abbrucia più di quello che faccia il fuoco inestinguibile dell'inferno. Non posso sostenere più la sua vista mi è forza il da questo corpo così lungo possesso".
 Ed in questo dire uscì furiosamente dalla donna, lasciandola del tutto libera, la quale insieme con l'esorcista ed i frati rendette affettuosissimi ringraziamenti al Signore della grazia ricevuta per i meriti di fra Matteo (o.c.,n.65-66).
 Non solo in questa occasione, ma in altre ancora diede il demonio manifesti segni d'avere in grandissimo orrore l'umiltà di questo perfetto religioso.
 Quando negli esorcismi si nominava fra Matteo, il maligno con urli e stridori: "Taci - urlava - né più mi nominare quest'uomo che non posso per modo alcuno sentire il suo nome; tanto è il cruccio, che mi cagiona [..l Mi dolgo, e molto mi dolgo, che questo chiericuzzo col tempo mi travaglierà e mi tormenterà più fieramente" (cf . o.c., n.67).

 

Ecco l'uccisore di vostro figlio
 Esempio veramente degno di questo servo di Cristo fu quando, dal ministro provinciale, mandato a predicare la quaresima ad Agnone sua patria, avanti che si fabbricasse il convento dei cappuccini.
 Padre Matteo, saputo che viveva ancora la signora Angela, madre del fanciullo da lui miseramente ucciso, risoluto prima d'incominciare il corso quadragesimale di chiederle umilmente perdono de fallo - benché per inavvertenza da lui commesso - andò a ritrovarla a casa e, gittandosi per terra ai di lei piedi, e postasi la fune al collo, con un profluvio di lacrime, le favellò in questa guisa: "Ecco, signora, ecco l'uccisore dell'unico e amatissimo vostro figlio. Benché innocentemente io abbia errato, io rimetto non per tanto al vostro arbitrio la pena dovuta al mio fallo. Chiamo Dio in testimonio, che non solo fu involontario il mio delitto, ma di più ne sentii estremo dolore della perdita di un sì caro compagno; con tutto ciò, perché veniate ad alleggerire in qualche maniera la doglia, che vi tormenta giorno e notte, son pronto a sostenere qualunque castigo vi sarà in grado".
 Ad un esempio di umiltà così raro non poté contenersi la donna che, intenerita nel cuore, non desse in un dirottissimo pianto,accompagnato da un profondo sospiro; onde, con parole da singhiozzi interrotte, così gli ri spose: "Matteo mio, ho lagrimato sinora, nol niego, la disgraziata morte del mio figliuolo; ma vi prometto di non piangerla mai più da qui avanti. In vece del morto prendo voi per mio carissimo figlio, e come tale vi amerò cordialissimamente tuti i giorni di mia vita".
 Si ritrovarono presenti a questo pietoso spettacolo i principali dellaTerra, che, vi erano andati in compagnia di padre Matteo, e vedendo, l'umiltà del servo di Cristo e la magnanimità della donna, piansero anch'essi dirottamente ed innalzarono le voci al Cielo in rendimento di grazie alla divina Maestà (cf. Annali, t.III, parte I, anno 1616, n.68).

 

Pareva un usignolo celeste
 Padre Matteo recitava con somma riverenza e particolare attenzione l'officio divino. Stando in coro, gli pareva di "essere in Paradiso a cantare le divine laudi con gli Angioli". Conveniva con gli altri alle ore canoniche di notte e di giorno, se non era impedito da gravissima infermità. All'udire il tocco della campana, se si ritrovava alla porta con qualche secolare, subito da esso si licenziava, con dire che quello era il segno che lo chiamava a lodare il Signore e che gli conveniva lasciare ogni altra faccenda.
 Una volta nel luogo della Serra, aggravato da acutissimi dolori di podagra, padre Matteo non lasciò mai di recitare il divino ufficio; e sentendo la vigilia dell'Assunzione suonare il vespro, non potendosi muovere dalla lettiera, desiderava di essere portato in coro dai frati; ma non comparve alcuno alla sua cella e padre Matteo ne sentiva grande afflizione e rammarico.
 Il pietosissimo Iddio, che non voleva in giorno di tanta allegrezza lasciare sconsolato il suo servo, "all'intonarsi del vespro, gli mandò un uccellino alla finestra, il quale si pose a cantare con tanta soavità e melodia, che pareva un usignolo celeste, che lo riempì di una consolazione indicibile, ne cessò mai il canto sin che i frati non cessarono anch'essi dal salmeggiare" (o.c.,n.69).

continua