La bontà della carne degli animali da macello è strettamente legata all’alimentazione e al modo di vivere degli stessi animali, liberi di pascolare secondo natura in un habitat biologico. Spetta all’uomo poi integrare la loro alimentazione con prodotti sempre naturali per migliorarne la carne. L’igiene della mattanza e il modo di conservare questo prodotto delicatissimo contribuiscono a far sì che esso possa arrivare sulle nostre tavole soltanto come c-a-r-n-e.
Anticamente da noi la macellazione si faceva all’aperto, vicino alla Portella, nelle beccherie, chiànghe, o nei trappeti (…Francesco Cacchione come fittuario del Trappeto per uso di Chianca in tempo non si macina oliva…-de Luca pag.59-). Già dal 1745 la famiglia Cacchione, (il casato di questa famiglia risale al 1599 con Giovan Battista Cacchione), aveva dimestichezza con la vendita delle carni. Una famiglia di macellai, chjènghire, che ancora oggi, con Lino, Fabrizio, e Massimo, continua con competenza il mestiere degli antenati.
La carne di pecora e di maiale era quella più consumata e soltanto nei primi anni del 1900 fu incentivata la vendita di carne vaccina. La mattanza fu regolamentata nel 1931, quando fu inaugurato il pubblico macello, schènnagge, da parte del podestà Vincenzo Castelnuovo. I macellai, tra gli altri, oltre i Cacchione, ricordiamo i Cordisco, i Facciolli, i Pescatore, (alcuni erano anche allevatori), acquistavano i capi allevati per lo più nel nostro agro e li macellavano nella nuova struttura sotto il controllo del veterinario. Era proibito macellare gli animali da soma. La carne si vendeva a basso macello quando l’animale restava azzoppato o moriva per disgrazia. Era il momento per i meno abbienti, che si potevano permettere solo il castrato e non di frequente, farsi la provvista e metterla sotto sale.
Del porco come dell’agnello morto o ammazzato non si buttava niente. Gli zampetti, puliti ed essiccati, venivano conservati e all’occorrenza bolliti per essere poi gustati. La carcassa della pecora veniva dissossata e tenuta per un giorno in aglio, sale, finocchio e peperoncino; poi stesa ed appesa ad asciugare all’aria: a muscische era pronta per essere consumata. Le interiora, pèrèture, dell’agnello venivano lavorate per realizzare i torcinelli: involtini di fegato e animelle, avvolti nel peritoneo, rézze, aromatizzati con aglio, prezzemolo, peperoncino e attorcigliati strettamente con le budelline. Con la carne di agnello a pezzetti, calata nell’amalgama di formaggio e uova che la rendeva dorata, si realizzava u chèsce e óve. U spezzète invece con cicoria o con i lèmpèsciune (le cipolline selvatiche amarognole che si abbinano bene al gusto dolce della carne). U róte ca cuccétte e pètène, la teglia con le patate e la testa di agnello al forno, era un bocconcino delicato. A pèquere o l’ajene è crepètèlle era un piatto prelibato: i pezzi di carne, depurati dal sangue, si cuocevano a lungo in un paiolo di rame stagnato chiuso ermeticamente con l’aggiunta di sale, cipolla, rosmarino, bacche di ginepro e peperoncino, dièvelille. Il grasso della stessa carne condiva il tutto.
Anticamente i porcari in campagna cuocevano il porco a “pampanella” in un forno nature. Su una buca preparata all’incirca della stessa dimensione dell’animale, a tre palmi dal fondo, disponevano a mo’ di graticola orizzontalmente e parallele fra di loro dei tronchetti di legna. Vi adagiavano il maiale sventrato e pulito dalle visceri. Coprivano prima la carne e ogni parte parte della buca con strati di felci e foglie di alloro e poi il tutto di terra. Accendevano il fuoco e dopo tre giorni il porco, così conciato, giungeva alla perfetta cottura.