Il mestiere del carbonaio (l’arte du chèrvunére), oggi scomparso, consisteva nel trasformare in carbone la legna ottenuta dagli alberi dei boschi. Fra i tanti carbonai che nel corso dei secoli operarono in paese consideriamo tre famiglie, di stampo patriarcale, ancora presenti nella memoria collettiva, che nel primo novecento emigrarono da Capracotta a Serracapriola per intraprendere il mestiere di produrre e commerciare il carbone e la legna. In ordine di tempo si stabilirono in paese, incrementando con la prole i nuclei familiari e l’attività lavorativa: i Giuliano, i Carnevale e i Santilli.
1°) Filomeno Giuliano (n. il 24-7-1859), cgt Colomba Paglione (figli: Mira, Serafino, Alfonso, Sebastiano, Angeloantonio), era un uomo buono, alto oltre un metro e 90. Rispecchiava i semplici della Verità Evangelica quando accompagnava la vendita del suo prodotto con la parlata capracottese, mèrechè pèriénte, per far capire all’acquirente povero che poteva pagare la merce con comodo. L’attività finì con il figlio Angeloantonio (1899-1990) che, passato poi a lavorare presso i Santilli con il suo carretto come trasportatore di carboni, negli anni ’50, assegnatario di un podere dell’Ente Riforma, diventò coltivatore diretto.
2°) Costantino Carnevale, cgt Michela Carnevale (figli: Ernesta, Marietta, Fortunata e Gaetano), già dal 1910 commerciava legna e carboni a Serracapriola. Gaetano (2-7-1894/92-1976), coniugato con Assunta Comegna (1896-1973), sviluppò l’Industria boschiva paterna, cooperando successivamente con i figli, Costantino junior (1920-1975) cgt Colomba Potena (1929), Michela (1922), Sebastiano (1924-1993), Giuseppe (1927-1997) cgt Adelia Rendine (1934), Antonia (1929), Pasquale (1931) cgt Teresa Mosca (1945), Ersilia (1937). Nella famiglia di Gaetano Carnevale vigevano i motti, “Uno per tutti, tutti per uno”, “Donne e buoi dei paesi tuoi”. Si viveva sotto lo stesso tetto e ci si sposava facendo la scelta nel paese natio: a Capracotta. L’unico componente della famiglia patriarcale a fare eccezione alla regola fu Giuseppe che sposò la serrana Adelia. Ma questa libertà non turbò minimamente l’armonia e l’unità della Famiglia.
3°) I tre fratelli Santilli arrivarono a Serracapriola nel 1924 con un basto (mmàste) e una frusta (screjète). Erano boscaioli-taglialegna ed esperti carbonai. Producevano il carbone, realizzando la carbonaia (chètòzze), e lo commerciavano: Geremia cgt Giuseppina Sozio (figli: Sebastiano e cinque femmine); Carmine (22-03-1893 / 22-12-1980) cgt Giuseppina Sammarone (figli: Esterina (1920), quattro maschi morti in tenera età, Laura (1928), Nunzia -1930); Giampietro cgt Margherita Fiadino, trasferitosi dopo pochi anni a Bonefro (CB). La ditta si radicò bene in paese. I Santilli lavoravano con due carretti (trèine), un mezzo più leggero, dotato di balestre (scèrèballe), cinque cavalli e un mulo. Ma la mala sorte, procurata dalla mano dell’uomo, li investì. Negli anni ’30 gli animali da tiro morirono per avvelenamento e i carbonai, precipitati sul lastrico, dovettero risalire la china. Nel 1948 Geremia si divise da Carmine. La figlia di quest’ultimo, Nunzia, sposò nel 1953 Sebastiano Paglione (1925-1990), già dipendente della ditta, il quale continuò a lavorare con il suocero. Svolgeva la mansione di capo carbonaio (chèpòcce) Paolo Caputo. Questi, proveniente da Sant’Irico Raparo (PT), venne a Serracapriola nel 1956. Inizialmente commerciava la legna, ottenuta dal disboscamento delle fantine di Benedetto Maresca, poi passò alle dipendenze di Carmine Santilli, come esperto nella preparazione della carbonaia. Ma nel 1962 una fiammata gli procurò una grave e permanente lesione agli occhi e per invalidità fu costretto ad abbandonare questo lavoro.
Sebastiano Paglione, ultimo titolare della ditta, continuò l’attività fino al 1990, anno della sua prematura morte.
Nel dopoguerra (fine anni ’40) un altro carbonaio, Gabriele di Rienzo, si trasferì a Serra per lavorare.

L’industria boschiva dei Carnevale
La ditta Carnevale iniziava il lavoro acquistando il prodotto per uso combustibile, dopo che un componente della famiglia aveva visitato e stimato il valore del bosco ceduo (sottoposto per il rinnovo a tagli periodici) in questione. Stabilito l’accordo con il proprietario del bosco, bene demaniale controllato dal Corpo Forestale dello Stato, iniziava il lavoro di trasformazione della legna ad uso combustibile. Dal bosco ceduo si ricavavano fusti per paleria, legna da ardere e legna da trasformare in carbone. Le essenze “forti” (querce, cerri, lecci e carpini) erano maggiormente impiegate perché per la produzione del carbone i legni dolci, come castagni, tigli e olmi sono meno pregiati. Per organizzare l’attività la ditta assumeva i taglialegna, i mulattieri e i carbonai.

I taglialegna
taglialegna (spacchélène), venivano da Chieuti e da Capracotta. Lavoravano “a squadra” e venivano pagati a cottimo per non far rallentare il ritmo del lavoro. Dopo aver segnato un albero, prima si sfrondava la chioma con la roncola (runge) o con l’accetta (ccettélle) per facilitare la caduta senza danneggiare le piante circostanti. Per abbatterlo c’erano due modi: il taglialegna procedeva alla scalzatura, che consisteva nell’assottigliare la base dell’albero per poi segarla più facilmente; o a intaccarla con la scure a lama lunga (ccétte) da una parte, mentre dal lato opposto altri due boscaioli azionavano una lunga sega (u strungóne). Man mano che procedeva il lavoro, per evitare l’inceppamento della lama, s’inserivano dei cunei (zéppe). Quando si arrivava con il taglio vicino all’intaccatura, già procurata, l’albero cadeva dalla parte opposta ai segantini. Si segavano i rami della lunghezza di circa un metro e si accatastavano a “cànne”. I rami più sottili venivano utilizzati per fare la carbonella o fascine (fàsce de céppe). Questo lavoro si eseguiva d’inverno quando la linfa scende nel tronco.
I boscaioli rispettavano la natura. Sembra un paradosso per chi abbatte degli alberi per vivere. Ma proprio per questo si guardavano bene dal distruggerli irrazionalmente, curando il bosco ceduo con tagli, a turni da 3 a 18 anni, senza toccare gli alberi di alto fusto.

I mulattieri
Dopo l’abbattimento delle piante operavano i mulattieri, che venivano da Chieuti (Donato Florio, Pietro Leone), da Capracotta e Monte Sant’Angelo. Essi trasportavano la legna appezzata secondo i suggerimenti dati dai carbonai. Erano molto abili nell’accatastarla secondo l’uso. La catasta non doveva superare un metro di altezza. I pezzi di legno da convertire in carbone, lunghi circa cm.75, venivano separati in base alla natura del legno ed alla grossezza. Il lavoro proseguiva nel legare le fascine per i forni del pane e i fascinotti di frasche per le fornaci di mattoni, nell’accatastare legna grossa da carbone, rami sottili per la carbonella e nella raccolta della sterpaglia (rovi, ginepro, spine) per la brace.

I carbonai
I carbonai, provenienti da Cervinara e da San Martino Valle Caudina (AV), assicuravano alla ditta Carnevale l’approvvigionamento del prodotto mediante la produzione del carbone e della carbonella (chèrvunèlle), molto richiesta durante il periodo invernale per alimentare i bracieri. Questi artigiani dalla faccia nera, riscattata dalla luminosità degli occhi e dai denti bianchissimi, restavano nel bosco da ottobre a maggio e dormivano nei pagliai (pègghjère) da loro stessi realizzati.
Si cominciava con lo scegliere il sito per la carbonaia (chètòzze), un terreno piano, ampio e solido, la “piazza” o “area del fornello”, protetto dai venti e vicino ad una sorgente d’acqua o ad un pozzo. Si tracciava una linea circolare della grandezza della carbonaia voluta, impostando una canna fumaria al centro del cerchio, intorno al quale venivano accatastati i legni di leccio, già tagliati, e opportunamente accostati. Si erigeva così a chètòzze, una catasta di forma conica. Si copriva tutta la superficie esterna di foglie, di altro materiale del sottobosco e infine di terra, la così detta camicia, per impedire la penetrazione dell’aria. La carbonaia veniva accesa, salendo sulla cima con una scala e introducendo la brace nella canna fumaria. Si chiudeva la buca con una pietra piatta. I carbonai giorno e notte controllavano il procedere della combustione sostituendo la terra che si staccava dalla camicia. Nella prima fase dell’essiccazione dalla carbonaia usciva un fumo bianco, si diceva che sudava. Nella seconda fase, quando la legna era diventata asciutta, e all’interno della catasta il calore aveva raggiunto i 350°, la carbonaia emetteva fumi acri, gialli e marrone. Iniziava la distillazione del legno, che emetteva gas, fra cui il biossido di carbonio. Nella terza fase i vapori, trasparenti azzurrognoli, usciti dalla canna fumaria annunciavano che era iniziata la distillazione (combustione del carbone). Questo era il momento più delicato in cui i carbonai dovevano praticare dei fori intorno al cono per far carbonizzare anche gli strati inferiori della catasta e per darle sfogo contro il rischio di un eventuale scoppio. Questo duro lavoro durava ininterrottamente giorno e notte per due settimane. Terminata la combustione si gettava terra sulla massa di carboni e si attendeva pazientemente la “sfornatura”. Completato il raffreddamento il carbone veniva valutato dai carbonai e dal datore di lavoro. Se si presentava leggero, asciutto, sonoro, scuro con bellissimi riflessi blu, era di ottima qualità. Da 100 quintali di legna si ricavavano 12-16 quintali di carbone. Il prodotto (carbone e carbonella), in sacchi di iuta da 25 Kg cadauno, veniva caricato sui carretti e consegnato alla ditta Carnevale che lo vendeva oltre che a Serracapriola anche nei paesi limitrofi. I carbonai intanto provvedevano a preparare una nuova carbonaia.
La ditta Carnevale si adeguava all’evoluzione tecnologica che portava man mano a sostituire i mezzi per il lavoro e lo stesso combustibile: le seghe e le accette con le motoseghe e la sega elettrica a nastro per il taglio della legna; i cavalli e i muli, i carretti (per il trasporto del prodotto dal bosco al paese) e i scèrèballe (per la vendita in giro per il paese), con i camion Fiat (il 626 nel 1948, il 642 nel 1955, il nuovo 643 nel 1964 e il 160 nel 1970). Si vendeva, cu scèrèballe in giro per il paese, tanta carbonella per alimentare i bracieri, i carboni e la legna per i camini, le cucine (in muratura ed “economiche”) e le stufe. Questi combustibili di origine vegetale vennero man mano sostituiti da altri: il gas in bombole per uso civico (butano e propano G.P.L.), il kerosene e la sansa. Oggi Pasquale Carnevale ed il figlio Antonio continuano l’attività atavica della famiglia soltanto con la vendita della legna e di poche bombole di gas. Il lavoro si è ridotto dal 1998, quando la “Italcogim” compì l’impianto cittadino del gas metano. Ma la vendita della legna continua, grazie alla diffusione del termocamino e al revival del caminetto tradizionale, che in molte case e ville, non più per necessità, arricchisce l’ambiente insieme con il termosifone, il condizionatore e qualche stufa al pellet o al nocciolino.