“La sete dei muratori e la volontà di Dio non si sa quanto grandi siano”
Dopo il terremoto del 1626/27, che distrusse quasi tutto il paese, soltanto la torre ottagonale del castello, tutta fabbricata a mattoni di taglio, emblema dell’urbanistica serrana, restò intatta. Sulle macerie cominciò a nascere la nuova Serracapriola.
La tecnica costruttiva delle prime case del centro storico era “a sacco” (‘nguscèture). Il materiale più comunemente usato era il mattone, principe della nostra terra, ricca di cave di argilla pregiata e di mattonai. Il mattone misto al pietrame nelle costruzioni più antiche e la malta fatta con impasto di terriccio, paglia e calce. I muri erano costruiti a casse forme sovrapposte. Ogni struttura, composta da pietre e malta, era delimitata da mattoni. Soltanto quando il sacco era ben asciutto ‘u frèbbechètóre” poteva proseguire il lavoro. Erano tempi senza problemi di tempo. I muri perimetrali delle abitazioni, di oltre un metro di spessore ottenuti con la stessa tecnica del muro a secco con l’aggiunta di malta, erano nelle case più antiche, muri di sostegno per le volte a botte che iniziavano l’arco a 150 centimetri dal suolo. In alcuni casi la volta poggiava su due o quattro archi che si sviluppavano lungo le pareti valorizzati in altezza. Con la diffusione delle fornaci ci fu il trionfo del mattone nel nostro tessuto urbano.
Per farsi la casa i contadini andavano dai mattonai a barattare la paglia con i mattoni. La bravura del muratore era determinante non solo per la stabilità della costruzione, ma anche per l’eleganza delle forme, specie delle volte e degli archi ottenuti con una tecnica originale, tramandata di generazione in generazione. Dopo aver costruito i muri perimetrali ed aver innalzato su quelli frontali due semiarchi, il capomastro centinava la volta che era quasi sempre a botte. Ma non mancavano le volte a crociera costruite con i mattoni, sbregliozze o mètunacce, legati con la pozzolana o a gesso in tempi più recenti. Il tetto, ‘a cupertine, era costituito da travature in legno, poste parallele fra loro e alla distanza di un metro. Tra una trave e l’altra si allineavano ogni venti centimetri in senso trasversale delle traversine di cerro su cui si poggiavano i mattoni “santa croce” (piènèlle). Infine il tetto, ormai chiuso, veniva definitivamente coperto di coppi (pince). Per le case più antiche le travature di legno costituivano le alte volte dei primi piani. Nel tempo si facevano le modifiche abbassando le volte con le lame di ferro ed i mattoni legati (quègghjète) a gesso. Si ottenevano così i soffitti con le capriate e sotto le stanze pulite con le volte a mattoni. Per utilizzare al massimo lo spazio, nelle pareti venivano ricavate delle nicchie, possibili in muri molto spessi. Fra queste non doveva mancare “a vutèrèlle”, l’altarino di famiglia, ricco di statuine e immagini sacre. Il camino, simbolo del focolare domestico, era l’indispensabile mezzo di riscaldamento delle case, a maggioranza di contadini e agricoltori. ‘U chèntóne, alla monacale o alla campagnola, era il cuore dell’abitazione e poteva impegnare un’intera stanza. Tutte le case, palazzi compresi, all’esterno non venivano intonacati, mentre le case povere, i bassi e le stalle nemmeno all’interno. Soltanto imbiancate a calce. Col tempo gli strati sovrapposti di calce lasciavano intravedere le sagome dei mattoni, protetti da questo candore ovattato di semplicità verginale.
Per fare i cornicioni o le chiavi degli archi centinati sui piedritti dei portali delle case i muratori sagomavano prima con la martellina, poi rifinivano con la raspa e la lima mattoni di mezza cottura inseriti in modanature di legno.
La bandiera italiana issata sul tetto e un lauto banchetto (chèpechènèle), offerto dal padrone di casa ai muratori, coronavano la fine dei lavori.
Ricordiamo alcuni muratori che nel corso degli anni, dalla fine del 1700 fino ai nostri giorni, furono, sono stati e sono gli artefici della crescita urbanistica del paese.
Il muratore Tommaso Ferrara con i figli Vincenzo, Michele e Pietro, nel 1774 fabbricò la cantina del convento dei padri cappuccini di Serracapriola, oggi valorizzata da un ottimo restauro insieme con tutto il convento, dove trionfano in perfetto equilibrio il bianco ed i mattoni a vista, unica soluzione, non opinabile, per il restauro conservativo serrano.
Emilio Pepe nel 1870 fu l’unico concorrente ed appaltatore a Serracapriola “della pavimentazione di buona parte delle strade interne del paese vecchio e nuovo, con lastre del Vesuvio e della cava di Apricena e con ciottoli….. Costruì due grandi palazzi al Corso Garibaldi con rilevantissimi guadagni, chiamati uno “piccolo Pepe”, ora (1914) proprietà del signor Michele de Luca, l’altro “palazzo Pepe” ‘u pèlazze de Pépe, primo grande fabbricato condominiale a tre ingressi in Corso Garibaldi-Borgo Occidente, ai civici 144, 150, 156.
Il maestro muratore Casimiro Gallo (1866-1941) fu Pietro, con i figli Pietro Maria (1893-1931), Ernesto (1896-1960) e Alessandro (1902-1963) fondò un’impresa edile dove lavoravano anche i fratelli Alessandro (1898-1971) e Guerino Leombruno (1915-2002), Gaetano Colescia (1898-1975), Barbato Sebastiano Fortunato (Nètuccèlle -1910-2002) e Umberto D’Aragona.
Il figlio cav. Ernesto Gallo per le sue capacità di costruttore edile sviluppò alla grande l’impresa appaltando molti lavori in paese, avvalendosi in seguito anche della professionalità dei fratelli Silvio (1904-1961), ingegnere edile, e Camillo (1909-1984), geometra. Aveva una sua cava di pietre, ‘a chève de Galle, e una macchina trita-pietre per ottenere la ghiaia. Con le forme realizzava i primi blocchi di cemento vibrato e le colonnine per realizzare i parapetti delle terrazze che caratterizzano il nostro centro storico. L’impresa Gallo costruì i porcili comunali che regolamentarono l’allevamento casalingo dei maiali. Edificò i due edifici scolastici “Scuole Elementari Femminili” e “Scuole Elementari Maschili”, di 24 aule, con giardini e palestra, su progetto dell’ing. Grassi di Torremaggiore (oggi snaturati) a due riprese: con Casimiro fino al piano terra; poi i lavori, interrotti a causa della guerra 1915/18, furono ripresi nel 1929 da Ernesto e la fabbrica venne ultimata durante il podestariato del dott. Vincenzo Castelnuovo, deceduto nel 1935. Nel 1933 prese l’appalto dei lavori della fognatura urbana, la cui esecuzione si deliberò l’8 giugno del 1934. In seguito l’appalto passò al fratello minore geom. Camillo. Costruì tanti palazzi, tra cui, in Borgo Oriente, il palazzo Giacci, Centuori, Cocumarolo, Arranga e il suo palazzo Gallo. Pavimentò negli anni ’30 la chiesa di S.Mercurio, arciprete don Luigi Centuori (1874-1959), la sagrestia e realizzò altri restauri per una spesa di £ 18.207,00. A coronamento del suo lavoro offrì in omaggio al Comune di Serracapriola la fontana in pietra di Apricena, progettata dall’ing. Ordona, che collocò sullo spiazzo antistante il Corso Garibaldi.
Palazzo Raffaele (1895-1985), muratore ed appaltatore edile, ebbe il merito di aver costruito nel 1932 il suo “Cinema Teatro Palazzo”che era formato dal palcoscenico di legno, dalla platea, dai palchi e dal loggione, in tutto circa 270 posti. Negli anni ’50, con il boom della cinematografia, per esigenze di spazio, il cine-teatro subì delle modifiche, perdendo la sua caratteristica originale, che lo annoverava fra i teatri più belli della provincia. Furono smantellati i palchi per ottenere un altro loggione, fu rimaneggiata la volta ed il palcoscenico diventò di cemento. Acquistato dal comune è stato ristrutturato come Cine Teatro Comunale, in base alle nuove norme di sicurezza, ma a tutt’oggi non ancora viene aperto al pubblico.
Altri muratori: Vincenzo Emanuele Forte (1854-1931). Vincenzo Orlando di Michele (1857-1945). Nicola Cibelli (1875-1959) e figli: Carmine Carlo (1910-1988) e Velusiano (1918-1994). Nicolino Forte (1876-1957) e figli: Emilio (1918-2000), Giuseppe (1912-1985), Pietro (1908-1967); i figli di Pietro: Nicola (1938-1980), Armando (classe 1946), Antonio (cl.1951), Ermete (cl.1940). Michele Speziale (1890-1979) e il figlio Gabriele (1925-2006); Michele (cl.1959) fu Gabriele; Pietro Speziale (1917-1968). Nannino Cariota (1896-1973). Federico Magnocavallo (1897-1959). Giovanni De Tollis (1898-1989). Vincenzo De Leonardis (1899-1943). Matteo Palma (1899-1969), il cui figlio, apprendista, morì per il crollo di una volta a botte in costruzione. Pietro Barbato (1900-1976). de Renzis Filandro (1904-1971) e il figlio Pasquale (1939-1999). Fortunato Basilica (1910-1984). Michele Fiorentino (1911-2008). Antonio Marolla (1912-2008) ed i figli Francesco (cl.1949) e Renato (cl.1955). I fratelli Ernesto (1916-1940) e Michele (1913-1998) Cordisco e i figli di Michele, Vincenzo (cl.1938) e Armando (1940-2006). Mario Emilio Altamura (1920-1998). I fratelli d’Orio: Antonio (1912-1985), Vincenzo (1919-1983), Domenico A. (cl.1942), Michele C. (cl.1943), Casimiro (cl.1954).
Ferruccio Regoglioso (cl.1923), muratore a Serracapriola fino al 1951, espatriò in Francia, dove lavorò alle dipendenze di un’impresa edile fino al 1964. Tornato al suo paese natio nel 1965, continuò il suo lavoro fondando un’impresa. Con lui dal 1969 iniziarono a diffondersi i ponteggi con i tubi innocenti in ferro che andavano a sostituire i vecchi cavalletti e tavole di legno.
Orlando Fortunato (1892-1982) e due figli, Giorgio (1923-1995) e Arnaldo (1932-2004) costituirono un’impresa che restò coesa finché lavorava il capofamiglia. In seguito ogni fratello si mise in proprio con una sua impresa iniziando a costruire palazzi condominiali con la vendita di appartamenti. Cominciò a diffondersi la struttura dei palazzi con i pilastri in cemento armato. L’albergo ristorante “S.Giorgio” di Felice Castriota, la casa di Teodoro Pracella poi acquistata dal farmacista Giuseppe Bissanti e il cinema Ariston, tutti in viale Aldo Moro, furono i primi fabbricati in cemento armato edificati dall’impresa di Giorgio Orlando che negli anni ’50 restaurò anche il prospetto della chiesa di S.Mercurio. Costruì altri palazzi in via Parini 48, in via Magenta, in via Piave, civico 9, e in via Trinità.
La sua attività, prima di artigiano e poi di imprenditore edile, sfociò nel commerciare materiale edile con un negozio, già in essere su corso Garibaldi e gestito dal fratello Raffaele e poi trasferito da Giorgio, proprietario e diretto gestore, ai civici 48/50 del palazzo in viale Aldo Moro, costruito dalla sua impresa.
Anche l’impresa di Arnaldo Orlando costruì alcune palazzine condominiali: in via Attilio Lombardi, in via Settembrini 19 sul suolo ottenuto dall’abbattimento del caseggiato a pianterreno dove era ubicato il mulino per cereali di Alessio Giacci e in via Piave.