I Greci e i Romani usarono le anfore di terracotta per il commercio dell'olio
e del vino attraverso il mar Mediterraneo. Furono i Celti che, assemblando
le assi ricavate dal tronco d'albero, inventarono il primo contenitore da
trasporto. Il mestiere di bottaio si diffuse nelle zone tipicamente vinicole, come
la Puglia, dove predomina la coltivazione della vite, in vigneti anche in
pianura. Sulla nostra collina, fino al primo novecento, si usavano orci
e tinozze di terracotta, conche, sckèfèré,
sèrole, zzìrr, per conservare
acqua, olio, vino ed aceto. I nostri bottai tenère,
i fratelli Giorgio e Antonio De Vito, Salvatore Malatesta
e Pasquale Viscusi producevano in gran quantità i contenitori
da trasporto: i mastelli tenéil in legno di abete,
per le mele chèitènèll, per le olive
e per l'uva; le bigonce, più grandi, con il fondo apribile; i barili
vèrile di castagno, per l'acqua, per il vino, per l'olio;
i barilotti vèrelott per pochi litri di vino che venivano
portati nei campi. Costruivano i grossi tini per l'uva pigiata, le tinozze
tine per il bucato, e botti vòtt di piccole
e medie dimensioni in legno di rovere o di frassino. Le grossi botti venivano
richieste a San Severo, dove c'erano molti maestri bottai.
Questi artigiani lavoravano all'aperto; sotto gli occhi di tutti costruivano
o riparavano le botti e curavano la loro manutenzione "....A
vòtt stè sturtète cè dè nturtè...."
La botte veniva impregnata d'acqua per far aderire così l'assemblaggio.
Il lavoro del bottaio cominciava con la sega da taglio, con cui si preparavano
assicelle ricurve della lunghezza della botte da costruire. L'artigiano
si sedeva a cavalcioni su un banco, chiamato cavalletto o spianatoio, che
gli serviva anche da morsa, sgrossava con un'ascia dalla lama larga e ricurva
e dal manico corto e sfalsato ogni doga, dopo averne intaccate le
capruggini, poi l'affinava con la pialla. Usava grossi coltelli a due manici,
raschietti a sgorbia e di rifinitura, infine un grande piallone fissato
al pavimento.
Il montaggio della struttura cominciava con l'inserimento dei cerchi,
che anticamente erano anch'essi di legno. In alcuni posti c'era il cerchiaio,
specializzato nella costruzione dei cerchi di castagno, di betulla o di
salice, che usava coltelli da tacche a lama molto larga. Ma anche quando
si cominciò la cerchiatura in ferro si abbinava quella in legno,
per ammortizzare gli urti e dare più consistenza ai contenitori.
Assemblate le doghe con i cerchi e inumidito il fusto all'esterno, il bottaio
accendeva un braciere all'interno. Il calore e il vapore davano la curvatura
definitiva alle doghe. Si passava alla costruzione del fondo che sarà
incastrato nella botte. Lo sportellino, indispensabile per pulire
la botte, veniva serrato con una traversa di legno, bloccata da una staffa
di ferro. La cannella, infilata nel fondo anteriore della botte o
nello sportello, serviva per spillare il vino. Lo zaffo stuppéle,
tappo di legno o di sughero, chiudeva il cocchiume rotondo, situato in alto
sulla botte, dove si versava il vino.
A Serracapriola questo mestiere è scomparso da un buon numero
di anni. A SanSevero, invece, centro vinicolo di notevole importanza, dove
si parla di alcuni palazzi costruiti con il vino, per dare risalto all'enorme
produzione du suche du serrèmènte, c'è
una famiglia di bottai da tre generazioni: i Galante, che fino a
qualche anno fa costruivano botti. Per reagire alla crisi del settore, dovuta
alla diffusione di recipienti di plastica e di vasche di vetroresina, dalla
produzione di contenitori di uso comune, riducendo le misure originarie,
sono passati a quella di oggetti inconsueti come porta ombrelli, porta bottiglie,
mobiletti-bar, per un arredamento rustico.
Ma, ancora oggi, per produrre un vino DOC ci vuole una botte DOC di rovere
o di castagno (contenitore ideale per favorire gli scambi gassosi fra la
massa del vino e l'esterno, che tanto contribuiscono alla maturazione del
prodotto), costruita da qualche bottaio che, ci auguriamo, continui a lavorare
in quel di San Severo.
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